Lorenzo Utile – La Libia si appresta ad affrontare le prime elezioni presidenziali dopo sette anni, con tre su sette milioni di cittadini che si sono registrati per votare, una lista di 1008 candidati alla nomina alla Camera dei Rappresentanti, ma quello che è il principale motivo di caos è la rosa di 61 candidati alla Presidenza.
La situazione è decisamente infuocata, come dimostrano gli avvenimenti di questi ultimi giorni, e il forzato rinvio delle elezioni, deciso dal Parlamento, in conseguenza di scontri fra milizie nella capitale, compreso il fatto che una di queste, la Brigata Al-Samoud, ha preso d’assalto il palazzo del governo e la sede del primo ministro Anobdoul Hamis Dbeibah, costringendolo ad annunciare un nuovo rinvio per il voto fissato al 24 dicembre. I leader del gruppo armato han annunciato che non ci saranno elezioni presidenziali e tutte le istituzioni statali verranno chiuse.
Il presidente Mohammed al Menfi ha chiesto l'intervento delle forze di sicurezza, e i membri del Consiglio Presidenziale sono stati trasferiti fuori dalla capitale in un luogo segreto.
All’origine della attuale condizione, pare ci sia la decisione del Consiglio di Presidenza (organismo a cui fanno capo le forze armate nazionali) di sollevare dall’incarico il comandante del distretto militare di Tripoli, generale Abdel Basset Marwan, e sostituirlo con il parigrado Abdel Qader Mansour. Ovviamente, alle spalle di tutto questo, l’appartenenza alla fazione tribale e politica, vista l’importanza del ruolo.
Salah Al-Badi, comandante della Brigata Al-Samoud, compreso nelle liste dell’ONU fra i maggiori ricercati a livello internazionale, la pubblicamente denunciato l’ingerenza delle Nazioni Unite e ha minacciato l’inviata speciale Sthephanie Williams, nonché i rivali diretti nella corsa elettorale.
Le elezioni, che dovrebbero portare la Libia fuori dal marasma politico, a dieci anni dalla caduta e morte di Muammar Gheddafi, erano già in forse, dopo l'Alta Commissione Elettorale libica (HNEC) ha annunciato il rinvio sine die della pubblicazione della lista definitiva dei candidati presidenziali spiegando di dover ancora adottare una serie di misure di sicurezza, bloccando di fatto anche la già breve campagna elettorale.
La sfida, in ogni caso, si svolge fra gli uomini forti del Paese: il generale Khalifa Haftar, comandante dell'Esercito Nazionale Libico, e padrone della Cirenaica con passaporto americano, accusato di crimini di guerra; Seif al Islam Gheddafi, figlio del defunto dittatore, ricomparso dopo essere stato “sequestrato” dalle milizie di Zintan e attualmente ricercato dalla Corte penale Internazionale e precedentemente condannato a morte dai libici stessi; e l’attuale premier Anobdoul Hamis Dbeibah. A seguire, fra gli altri, il presidente del parlamento di Tobruk, Aqila Saleh, un tempo sostenitore di Haftar; l'ex ministro dell'Interno, Fathi Bashagha; il già vicecapo del precedente Consiglio Presidenziale Ahmed Maitig. Il voto sarà sicuramente posposto all’anno prossimo, ma il pericolo reale è che il Paese scivoli nuovamente in una spirale di caos e guerra civile.
Anobdoul Dbeibah ha confermato la propria candidatura, nonostante avesse in precedenza assicurato che non avrebbe partecipato, e nonostante le contestate regole elettorali gli impediscano di candidarsi. La Commissione ha riferito di aver ricevuto 61 candidature, ma presentare la domanda non è certo sufficiente a garantire la partecipazione. I candidati devono soddisfare determinate condizioni, ad esempio una fedina penale pulita, o possedere esclusivamente la cittadinanza libica, così da assicurare maggiore trasparenza al processo elettorale. A peggiorare la già incandescente situazione, poiché le elezioni non sono una seconda possibilità per criminali e signori della guerra, il procuratore militare generale della Libia, ha rinnovato la richiesta di sospendere le candidature di Saif al Islam Gheddafi e di Khalifa Haftar fino al completamento delle indagini sulle accuse nei loro confronti.
Come se non bastasse, il fatto che le regole siano tutt’altro che condivise: l’articolo 12 della Legge Elettorale è uno dei più controversi, perché stabilisce che i candidati alla Presidenza devono lasciare ogni precedente incarico, sia civile che militare, 90 giorni prima delle elezioni. Una circostanza che eliminerebbe quindi la candidatura del premier Dbeibah mentre ammetterebbe quella di Haftar.
In risposta, l’Alto Consiglio di Stato con sede a Tripoli ha respinto la legge.
Nel tentativo di superare lo stallo, il presidente del Consiglio presidenziale libico, Khaled al Mishri ha prima proposto di mantenere al 24 dicembre solo le elezioni legislative, rinviando quelle presidenziali ad una data successiva al referendum costituzionale, e poi ha invitato gli elettori a boicottare i seggi.
In assenza di basi politiche solide in vista del voto, sono molti gli osservatori preoccupati che il processo elettorale o eventuali interferenze sul voto possano irrigidire le profonde divisioni che ancora covano nel paese. Uno scenario in cui basta poco per innescare un nuovo ciclo di violenze e favorire interventi stranieri laddove, paradossalmente, una delle principali problematiche è legata alla presenza di milizie e mercenari stranieri ancora schierati in tutto il paese. Sarebbe uno scenario da incubo per i libici. E se i sostenitori del processo elettorale credono che solo un nuovo governo possa chiedere che queste forze se ne vadano, le attuali divisioni rischiano di diventare più sistematiche soprattutto perché non esiste un apparato statale di sicurezza che possa assicurare un’accettazione condivisa e pacifica dei risultati elettorali. Non c'è dubbio che i libici meritino il diritto di eleggere i loro leader con libere elezioni. La comunità internazionale ha la responsabilità di creare le migliori circostanze possibili per farlo fare in modo libero, equo e sicuro, ma se questo si rivelasse prematuro, l’attuale contesto metterebbe a rischio la già delicatissima stabilità.
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