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Reporter di guerra - Noi, cani sciolti senza paracadute

Lorenzo Utile - Le morti di Brent Renaud, il giornalista statunitense colpito e ucciso il 13 marzo ad Irpin, nei pressi di Kyiv, e quelle ancora più recenti di Oleksandra Kurshynova e Pierre Zakrzewski il 15 marzo a Horenka, sempre nei pressi della capitale ucraina, costringono ad aggiornare il triste numero dei reporter, dei fotoreporter e dei cameramen deceduti nelle zone di guerra.

Se nel 2021, secondo i dati della Federazione internazionale dei giornalisti (International Federation of Journalists-IFJ), erano stati 45 i giornalisti caduti in 20 dei Paesi del mondo interessati da conflitti, in questi primi 3 mesi del 2022 la quota è già arrivata a 17, facendo prevedere un aumento considerevole per quest’anno.

Cinque dei diciassette decessi di quest’anno sono avvenuti nell’ambito degli scontri tra Russia e Ucraina. L’incremento delle ostilità tra i due ex paesi sovietici potrebbe comportare, infatti, un rischio ancora maggiore per quanti hanno intrapreso, per lavoro o per passione, la difficile missione di raccontarci i fatti della guerra. L’organizzazione francese RSF (Reporters sans Frontiéres- Reporter senza frontiere) ha denunciato quanto spesso i giornalisti si trovino al centro del mirino durante i conflitti.

Jeanne Cavalier, Responsabile di RFS per l’Europa dell’Est e l’Asia centrale, infatti, ha dichiarato: “I giornalisti sono obiettivi principali, come abbiamo visto in Crimea dalla sua annessione nel 2014 e nei territori controllati dai separatisti appoggiati dal Cremlino nella regione di Donbass. Chiediamo alle autorità russe e ucraine di rispettare i loro obblighi internazionali in materia di protezione dei giornalisti durante i conflitti e agli organismi internazionali di garantire il rispetto dell'obbligo di adottare misure di protezione.”

Con gli occhi del mondo puntati sul conflitto tra Russia e Ucraina, il ruolo dei corrispondenti di guerra è tornato centrale nella scena mediatica e la preoccupazione per questi testimoni della storia, anche. La cronaca degli ultimi giorni non ha fatto altro che acuire questo sentimento. I morti di queste ultime settimane, infatti, si sommano a molti altri che, prima di loro, hanno perso la vita in zone di guerra.

Le nuove forme di comunicazione e le innovazioni digitali hanno permesso a molti di avvicinarsi alla professione dell'inviato di guerra, più accessibile adesso di quanto non lo fosse nel passato, ma anche molto più pericolosa. Scott Anderson, corrispondente statunitense, in un'intervista durante la presentazione del libro The War Correspondent, spiega: «A metà degli anni ’80 nella guerra di El Salvador potevi scrivere “TV” con il nastro adesivo sull’auto e andare avanti e indietro tranquillo nella terra di nessuno. Sei o sette anni più tardi in Bosnia era completamente diverso. Scrivere “Press” o “TV” sulla tua auto era come disegnarci un grosso bersaglio sopra».

Alla vista dei pericoli in cui potrebbero trovarsi coinvolti i corrispondenti di guerra, il CPJ (Committee to Protect Journalists), un'organizzazione no profit statunitense per la protezione dei giornalisti e della libertà di stampa, ha raccolto un'insieme di prescrizioni per i lavoratori delle notizie nelle zone di guerra: raccomanda un corso preparatorio, la stipula di un’assicurazione specifica, consiglia di mantenere una linea di contatto continua con i colleghi sul posto e in patria e di dotarsi un’attrezzatura adeguata, ma soprattutto sottolinea la necessita di conoscere la regione regione e le forze in campo.

Resta comunque difficile sapere quando e se farsi riconoscere come giornalista nelle zone di guerra. Secondo un bilancio di Reporters sans frontières, per esempio, i giornalisti morti nei dieci anni della guerra civile in Siria sono stati oltre 300 e questo dato ci porta a chiederci quanto vulnerabile sia la protezione fornita da un badge della stampa. Sono numerosissimi, infatti, gli inviati di guerra che hanno perso la vita sul campo negli ultimi anni. In questa gallery ne ricordiamo alcuni.

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