Assadakah News - Non tutti gli israeliani condividono la politica genocida del premier Benjamin Netanyahu. Fra questi una coraggiosa docente universitaria di Storia Moderna all’Università La Sapienza di Roma (oltre a Stria della Cultura nella prima età moderna, Storia della Mentalità, e Storia Ebraica), che ha evidenziato le proprie motivazioni in un libro decisamente coraggioso, che merita di essere letto, per capire un punto di vista interno, nella cultura israeliana. Un libro destinato a fare discutere: “Il suicidio di Israele”, che sta avendo notevole successo. Un suicidio non solo politico ma anche morale.
Anna Foa non usa mezzi termini: “Dal punto di vista politico e militare, non mi sembra possibile che si possa fare una guerra con l’Iran vincendola o addirittura portando alla liberazione del Paese. Non credo che Netanyahu sia in grado di gestire tante guerre tutte insieme, e inoltre si è pure scagliato contro le Nazioni Unite… Credo che tutto questo sia un colpo terribile all’etica del paese, alla morale, oltre che allo stato d’animo già molto depresso dopo il 7 ottobre di un anno fa. Israele è traumatizzato, na quello che Netanyahu e il suo orribile governo stanno facendo è portare all’estremo questo trauma, ad una dchiusura del cerchio, alla convinzione che tutto il mondo ce l’abbia con lui. Cosa assolutamente deleteria.
Oggi il governo sionista esaspera il tradizionale rapporto fra un ebraismo universalistico e un ebraismo agli antipodi. Una divaricazione che sta diventando molto pericolosa. Questa assurda visione “apocalittica” e messianica, che sta dentro il “suicidio d’Israele”, non nasce il 7 ottobre 2023, ma è presente da tempo immemore nel mondo ebraico, e in Israele si estende dal 1967, dopo la Guerra dei Sei giorni. È la presa di Gerusalemme che porta al crescere di queste pulsioni messianiche, che negli ultimi dieci anni sono aumentate enormemente, forse ancora prima. Israele ha cambiato pelle, e con essa orientamento politico, culturale, identitario, e a spiegarlo più che la geopolitica è la demografia.
C’è stato il grande cambiamento con la destra al potere nel 1977, con la vittoria, la prima dalla nascita dello Stato ebraico, della destra Likud guidata da Menachem Begin. Quelle elezioni rappresentano molto di più di una vittoria della destra contro il partito-stato laburista. Il potere viene sottratto all’Israele ashkenazita, europea, laburista, da parte delle grandi masse sefardite, orientali, abituate a vivere nei Paesi arabi di origine che la democrazia la frequentavano poco o niente, masse più religiose. Un discorso che può estendersi agli ebrei, o sedicenti tali, russi. Subentrano alla vecchia leadership laburista che era stata all’origine d’Israele come Stato nazionale. C’era stata poi la stagione della speranza, quella legata agli accordi di Oslo, impersonata da un grande d’Israele come fu Yitzhak Rabin, ma quella stagione durò molto poco, cancellata dall’assassinio di Rabin.
Certo, in Israele il problema della sicurezza è reale, ma non è un problema di destra o sinistra. E’ un dato della realtà con cui tutti in Israele devono fare i conti. C’è un odio molto forte che non può essere negato o sottovalutato. Il problema è un altro: la questione sicurezza non si risolve con la forza, ma con la pace. Rabin lo aveva capito e per questo è stato assassinato.
Netanyahu è un laico, inoltre di origini americane. Non credo che lui faccia tutto questo solo per salvarsi di fronte alle incriminazioni a lui imputate. Credo che ormai sia fuori di testa. Le ultime bordate contro l’Onu sono segno di una malsana mania di grandezza, condivisa dalla destra estrema. Sono davvero convinti che Dio li stia guidando a costruire il Grande Israele e a sbarazzarsi dei palestinesi.
Si potrebbe quasi dire che Hamas è il nemico di comodo capitato nel momento giusto. Certamente Hamas da una parte e i suprematisti ebraici dall’altra, vogliono in qualche modo la stessa cosa…Non vogliono uno Stato palestinese. Non vogliono la democrazia. Il fondamentalismo religioso ebraico e quello musulmano di Hamas sono diversi, però arrivano a punti abbastanza contigui.
Comprendere Israele oggi significa anzitutto fermare questa tensione suicida. Vuol dire fare ragionare Israele, arrivare a un accordo con i palestinesi, liberare gli ostaggi, e soprattutto far crollare il potere di Netanyahu. A me non piace il concetto “amici d’Israele”, perché non si può essere amici di uno Stato, lo si può essere di un popolo. E per esserlo oggi occorre battersi contro quelle tensioni che rischiano di segnare il futuro di un popolo che amo. C’è invece chi ritiene che Israele si salvi e si protegga con le armi, rispondendo colpo su colpo, distruggendo Gaza o allontanando con la forza i palestinesi. Sono due schieramenti contrapposti, e mi sembra che a questo punto si possa fare ben poco. L’unica cosa su cui si può fare qualcosa, e io ho cercato di farlo con il libro, è cercare di spiegare a chi non è filoisraeliano o filo-Hamas, ma magari tende ad essere più filopalestinese anche accettando il massacro del 7 ottobre perché pensa che questo sia un atto di resistenza, provare a spiegar loro la complessità dei sionismi, e cosa sta succedendo, soprattutto all’interno d’Israele, perché molti non lo sanno. Credo che sia qualcosa di utile per cercare di cambiare un po’ la mente della gente. Non credo che un intellettuale possa fare altro. II fatto è che mancano figure all’altezza anche fra gli oppositori, capaci di ricostruire i fili recisi della pace di Oslo. Ma quella stagione della speranza sembra, purtroppo, tramontata”.
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