Gaza: Natale tra le macerie. Il gesto del Cardinale Pizzaballa
- 3 giorni fa
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Maddalena Celano (Assadakah News) - Gaza, Natale tra le macerie: il gesto politico e pastorale di Pizzaballa
In vista del Natale, mentre Gaza resta sepolta sotto le macerie e il silenzio complice della comunità internazionale, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca Latino di Gerusalemme, ha compiuto un gesto che pesa più di molte dichiarazioni diplomatiche: è entrato a Gaza, ha camminato tra le rovine, ha incontrato i palestinesi e ha celebrato la messa nella chiesa della Sacra Famiglia.
Un atto semplice, essenziale, e proprio per questo profondamente politico.
In un contesto in cui Gaza viene sistematicamente disumanizzata — ridotta a “zona di guerra”, a “problema di sicurezza”, a “danno collaterale” — la presenza fisica di Pizzaballa rompe la narrazione astratta. Camminare tra le macerie significa riconoscere che lì non ci sono numeri, ma corpi, famiglie, storie, radici. Celebrare la messa in quella chiesa significa affermare che la vita, anche sotto assedio, non è sospesa.
Le parole pronunciate dal Patriarca sono nette, prive di retorica pietistica:
“Voi avete dimostrato che cosa significhi rimanere forti. Ricostruiremo le nostre case, le nostre scuole, le nostre vite. La nostra vita è qui, siamo radicati qui e resteremo qui.”
È una dichiarazione che va letta con attenzione. Non è solo un messaggio di conforto spirituale. È una presa di posizione contro la logica dello sradicamento forzato. “La nostra vita è qui” significa rifiutare l’idea — sempre più esplicita in certi discorsi politici e mediatici — che la soluzione per Gaza sia l’espulsione, la dispersione, l’annullamento della presenza palestinese.
In un tempo in cui molte istituzioni religiose occidentali oscillano tra prudenza diplomatica e silenzi imbarazzati, Pizzaballa sceglie la strada più scomoda: stare. Esporsi. Vedere. Toccare. Non delegare la sofferenza ai comunicati stampa.
Il suo gesto assume un valore ancora più forte se si considera che la comunità cristiana di Gaza è una minoranza minuscola, spesso dimenticata, ma profondamente intrecciata al destino del popolo palestinese nel suo insieme. Qui il cristianesimo non è una bandiera identitaria né uno strumento geopolitico: è una presenza storica, araba, locale, che condivide la stessa sorte di chi vive sotto assedio.
Il Natale celebrato a Gaza non ha nulla della cartolina occidentale. Non c’è pace proclamata a parole mentre le bombe cadono. C’è piuttosto una teologia incarnata, scomoda, che ricorda che il messaggio natalizio — se preso sul serio — parla di nascita sotto occupazione, di povertà forzata, di violenza strutturale, di resistenza quotidiana.
Il gesto di Pizzaballa mette implicitamente in crisi anche l’ipocrisia di chi invoca “valori cristiani” mentre giustifica la distruzione sistematica di un popolo. Qui il cristianesimo non è identità culturale da difendere, ma responsabilità storica da assumere.
Camminare tra le macerie non ricostruisce Gaza. Ma restituisce dignità a chi vi vive. E soprattutto rompe il muro dell’indifferenza, che oggi è forse la forma più pericolosa di violenza.
In un mondo che chiede ai palestinesi di sparire in silenzio, dire “restiamo qui” è già un atto di resistenza. E ricordarlo a Natale, nel cuore di Gaza, è un gesto che pesa. Molto.







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