Netanyahu annuncia la “vittoria totale”: una lettura del nuovo Medio Oriente
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Wael Almawla - L’incontro tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu, avvenuto alla fine di dicembre 2025, non è stato una semplice tappa diplomatica, bensì un momento politico rivelatore del passaggio del Medio Oriente a una nuova fase di ridefinizione. L’annuncio da parte di Netanyahu della “vittoria totale” non è stato soltanto uno slogan destinato al consumo interno, ma l’espressione di una crescente fiducia nel fatto che il progetto israeliano goda ormai di una copertura americana che gli consente di avanzare all’interno di un processo più ampio di riordino della regione.
Ciò che ha colpito dell’incontro non è stato solo ciò che è stato detto, ma anche ciò che non è stato smentito. Trump, noto per il suo pragmatismo esplicito, si è astenuto dal tracciare vere linee rosse davanti alle politiche di Netanyahu: né in Palestina, né in Siria, né in Libano, né sul dossier iraniano, e nemmeno riguardo alla Turchia. Questa assenza deliberata di limiti può essere letta come un “via libera” non dichiarato, che concede a Israele un ampio margine di manovra per gestire i conflitti anziché risolverli, in funzione di una riorganizzazione degli equilibri di potere nella regione.

Questo percorso non nasce oggi. Dalla dissoluzione delle strutture degli Stati centrali dopo le primavere arabe, la regione è entrata in una fase di smantellamento dei ruoli prima ancora che delle entità. Forze come Hamas e Hezbollah non sono più prese di mira solo come avversari militari, ma come elementi di un sistema regionale che si intende ricalibrare, in vista dell’isolamento dell’Iran e della riduzione della sua influenza. In questo contesto, la pressione crescente su Teheran si inserisce in una strategia di logoramento di lungo periodo, più che in una decisione immediata di guerra, pur restando l’opzione militare presente come strumento permanente di pressione.
Sul dossier siriano, questa logica emerge con chiarezza. Il tono positivo utilizzato da Trump rispetto a una “nuova fase” in Siria non si è tradotto in impegni concreti capaci di vincolare Israele. Il riferimento alla “speranza di un accordo di sicurezza” riflette una generica aspirazione americana alla stabilità in Siria, ma riconosce implicitamente l’incapacità – o la mancanza di volontà – di Washington di frenare l’azione israeliana, rafforzando l’ipotesi di una delega implicita piuttosto che di una partnership dichiarata.
Anche il Libano resta un terreno pronto alla prova. L’integrazione tra l’approccio americano e quello israeliano su questo dossier suggerisce che l’opzione dell’escalation rimanga sul tavolo, seppur a ritmo controllato, regolata da calcoli di tempistica e di costi, più che da considerazioni di deterrenza morale o di stabilità a lungo termine.
La dimensione più ampia, tuttavia, va oltre i teatri di conflitto tradizionali e arriva a coinvolgere la stessa Turchia. Nonostante il suo status di alleato della NATO, Ankara appare oggi circondata da una cintura di pressioni integrate: dal sud siriano instabile al Mediterraneo orientale, dove si va consolidando un’alleanza israelo-greco-cipriota con implicazioni di sicurezza ed energetiche che vanno oltre il gas, fino a ridisegnare gli equilibri del potere marittimo. Questa alleanza non mira soltanto a ridurre il ruolo turco, ma a contenerlo strategicamente e a impedirgli di trasformarsi in un attore regionale autonomo capace di imporre le proprie equazioni.
In questo quadro, la Turchia non appare come un partner pienamente coinvolto nel riassetto della regione, bensì come un soggetto da controllare e limitare nel suo margine di movimento, forse anche chiamato a pagare il prezzo delle sue scelte passate, sia in Siria sia nel Mediterraneo orientale.
In conclusione, l’annuncio della “vittoria totale” non segnala la fine dei conflitti, ma piuttosto il tentativo di imporre un nuovo ordine regionale secondo la logica della forza e di un’egemonia calcolata. Tuttavia, la storia recente del Medio Oriente dimostra che i progetti costruiti su un eccesso di fiducia spesso si scontrano con sorprese impreviste. Netanyahu riuscirà davvero a trasformare questa delega internazionale in una vittoria duratura? Oppure le complessità della regione e l’intreccio dei suoi fronti produrranno nuove sorprese capaci di ribaltare gli equilibri e rimescolare le carte?







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