USA - La spietata coerenza strategica di Donald Trump
- Roberto Roggero
- 15 giu
- Tempo di lettura: 3 min
Roberto Roggero* - Se nel corso del primo mandato, la politica di Donald Trump è apparsa come una spinta estemporanea, forse anche infantile, nel solco della modalità “America First”, oggi conferma la propria natura assolutamente priva di scrupoli di qualsiasi genere, e in qualsiasi settore, per realizzare il principio “Make America great again”.
Un disegno di Realpolitik prima di ogni ipocrisia, che evidenzia un substrato tutt’altro che estemporaneo, con punti fermi non certo casuali. Un disegno con tappe estremamente precise e dettagliate, che non segue la logica della diplomazia tradizionale dello sviluppo facendo tesoro degli insegnamenti e anche degli errori precedenti, ma che ha il solo scopo di costruire qualcosa, radendo completamente al suolo ogni precedente.
La traccia base su cui è basata questa strategia è prevalentemente economica, la quale è poi proiettata su due principali piani, nazionale e internazionale. Un unico grande disegno per imporre un nuovo e assoluto potere globale tutto americano.
Sul piano nazionale il presidente Trump ha avviato una vera e propria guerra culturale, quindi una politica internazionale fondata sul principio dei dazi, e infine una strategia geopolitica basata su precise e definite sfere di influenza.

Il voler distruggere per ricostruire implica quindi la demolizione dell’ordinamento liberale che gli USA hanno imposto al mondo dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale, e oggi considerato un vero e proprio svantaggio. La attuale visione di Donald Trump considera tutto questo un intricato insieme di limitazioni e vincoli troppo costosi, che alla fine portava vantaggi a tutti meno che a Washington e quindi veri e propri “bastoni fra le ruote”.
Il primo elemento da radere al suolo è quindi il multilateralismo, in sostanza istituzioni e organizzazioni sovranazionali come l’ONU, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, WTO e branche derivate, che hanno imposto trattati come l’Accordo di Parigi sul clima, o lo Statuto di Roma che ha istituito la Corte Penale Internazionale, e soprattutto la costosa impalcatura per i negoziati sul nucleare con l’Iran.
In secondo luogo, il programma trumpiano implica l’annullamento della globalizzazione, ovvero del libero scambio causa della crisi dell’industria e dellla produttività americana destinata all’export, soprattutto in funzione anti-cinese. Da qui l’imposizione dei dazi e la determinata volontà di rinegoziare qualsiasi accordo internazionale di natura bilaterale.
Terzo elemento da distruggere, la sicurezza collettiva, in una parola, a NATO, considerata una associazione di comodo per molte Paesi, soprattutto europei, per evitare eccessive spese per la Difesa. In questo quadro si inserisce la pressione per portare le spese militari al 2% del Pil, ovvero l’intenzione di trasformare un’alleanza di valori in un accordo transazionale, o per dirla in modo più realistico, un vero e proprio ricatto in pieno stile mafioso: pagare per la protezione, o niente protezione.
Trump quindi vuole un’America granitica al proprio interno, per poter esportare l’America nel mondo, forgiando una nuova omogeneità culturale. Demolire quindi il “politically correct”, le aspirazioni “gender”, i media che si reggono sulle fake news, iniziando da dichiarazioni che possono apparire sparate da megalomane ma che sono tutt’altro che errori di valutazione e comunicazione, che puntano a polarizzare una precisa scelta di campo, per ricostruire una Paese coalizzato su valori tradizionali, patriottici e giudaico-cristiani.
Sul piano internazionale, i dazi sono visti non come strumento di politica economica, ma come arma strategica multifunzione, solo apparentemente protezionista. L’obiettivo è duplice: riportare produzione e domanda all’interno del Paese, incentivare le aziende a riportare la produzione negli Stati Uniti per evitare i dazi e servire il mercato interno; ridurre la dipendenza dalla Cina per beni essenziali, soprattutto per l’industria dei componenti elettronici, perché non si può essere sovrani se il nemico produce le sue medicine e i suoi chip.
Il danno maggiore dei dazi non è tanto il costo aggiunto, quanto l’incertezza che generano, e l’incertezza è una potentissima arma strategica.
La sfera d’influenza che Trump vuole fare sua va dalla Groenlandia a Panama. In questo schema, si riconosce implicitamente a Russia e Cina il ruolo di potenze regionale.
Gli Accordi di Abramo, le guerre di Israele oggi, sono il manifesto di questa politica: bypassare la questione palestinese e creare un’alleanza pragmatica (Israele-Golfo) in funzione ani-iraniana, con Washington come garante.
Se questa interpretazione è giusta, le conseguenze sono catastrofiche perché l’Occidente come alleanza politica e di valori è finito.
Il Medio Oriente è destinato a diventare un’arena per le potenze regionali (Israele, Turchia, Iran, Arabia Saudita), libere di regolare i conti senza mediazioni esterne, con il rischio di un ritorno delle guerre di annessione, con i relativi giganteschi interessi economici.
(*Direttore responsabile Assadakah News)
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