Netanyahu, grazia sospesa e tentazione di rincorrere la guerra
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Wael Al-Mawla - Benjamin Netanyahu sta vivendo uno dei momenti più tesi e turbolenti della sua carriera politica, dopo essersi ritrovato assediato da casi di corruzione che minacciano la sua posizione e mettono l’intera sua eredità politica sull’orlo del crollo. La richiesta di grazia presentata prima dell’emissione della sentenza non è un dettaglio procedurale, ma una dichiarazione chiara del fatto che egli comprende la gravità della fase, e che la magistratura si avvicina a un momento capace di cambiare tutto. Nonostante ciò, Netanyahu non sembra disposto a lasciare spazio all’idea del ritiro dalla vita politica: continua a credere che la sua permanenza al potere non sia una scelta, ma una necessità esistenziale per Israele e per il progetto che ha costruito nel corso di decenni.
In Israele, quando Netanyahu attraversa una crisi interna, la politica si trasforma in sicurezza, e la sicurezza in una battaglia esterna utilizzata per giustificare la fuga dalle proprie responsabilità interne. Soprattutto perché è un esperto nel creare la sensazione di pericolo e nel trasformare qualsiasi crisi personale in una crisi nazionale. Con l’avvicinarsi del momento della sentenza, la “fuga verso la guerra” diventa un’opzione reale — non perché cerchi necessariamente una guerra totale, ma perché sa che anche solo entrare in una nuova escalation o in un’operazione militare può congelare il processo giudiziario, ricostruire un governo di emergenza, o almeno cambiare le priorità politiche dandogli il tempo necessario per riorganizzare le sue carte.
I fronti attorno a lui rimangono aperti, disponibili a essere attivati secondo il ritmo della sua crisi. Il Libano resta il teatro più sensibile: la tensione con Hezbollah non è realmente diminuita, e qualsiasi scintilla lungo il confine può trasformarsi in un’operazione “necessaria” che gli consenta di presentarsi come il leader che si frappone tra Israele e una minaccia esistenziale.
Netanyahu vede anche nella Siria un’opzione comoda: può colpire obiettivi o figure presumibilmente legate all’Iran o alla Turchia senza scivolare in una guerra su vasta scala, approfittando della frammentazione del quadro siriano.
Anche l’Iraq rappresenta un’opzione: un attacco mirato potrebbe inviare un messaggio duplice a Teheran e Washington, riportando Netanyahu al centro dell’azione come un decisore indispensabile. Resta poi la possibilità più pericolosa ma anche la più incisiva: colpire l’Iran con un’operazione calibrata, cibernetica o militare, capace di rovesciare il tavolo e rimescolare le carte interne e regionali, senza necessariamente arrivare a una guerra totale.
Il cuore della crisi è che Netanyahu non combatte solo per rimanere al potere, ma per evitare che l’immagine della “caduta giudiziaria” diventi la conclusione della sua carriera. Egli non si considera soltanto un primo ministro, ma l’architetto di un’intera fase nella storia di Israele e della regione, e rifiuta che la sua eredità si chiuda con una sentenza giudiziaria. Per questo qualsiasi passo che i suoi avversari considerano avventato potrebbe, ai suoi occhi, far parte di una strategia di sopravvivenza.
Oggi Israele si trova in un momento delicatissimo, non perché le minacce che la circondano siano senza precedenti, ma perché un leader messo all’angolo e con il proprio futuro politico nelle mani è in grado di prendere decisioni capaci di riaccendere l’intera regione. Quando Netanyahu si avvicina al pericolo non arretra, ma avanza con maggiore aggressività, ed è questo ciò che rende la fase che viene aperta a scenari che potrebbero andare oltre la politica, verso un confronto reale imposto più dal bisogno personale di sopravvivenza che dalle necessità strategiche. Questa non è una crisi passeggera, ma un momento che ridisegna insieme il futuro di Israele e della regione.







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