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Trump e Netanyahu: necessità e calcolo strategico

  • 2 giorni fa
  • Tempo di lettura: 2 min
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Wael Almawla - L’incontro tra Benjamin Netanyahu e Donald Trump non è un semplice evento politico, ma un appuntamento carico di implicazioni che superano Gaza e il cessate il fuoco, toccando il cuore del futuro Medio Oriente. Si tratta di due leader uniti dagli interessi ma divisi nei rischi e nelle strategie.

Per Trump, Gaza rappresenta un peso politico e strategico da contenere rapidamente. Washington, in un momento internazionale delicato, cerca una tregua calcolata per ripristinare il controllo regionale, prevenire un’escalation con l’Iran e mantenere una stabilità sufficiente a concentrarsi sulle proprie priorità. L’obiettivo è consolidare il cessate il fuoco e avviare nuove misure di sicurezza, anche se temporanee, mantenendo il ruolo degli Stati Uniti come arbitro principale nella regione.

Netanyahu, invece, entra nell’incontro con preoccupazioni interne. Tra crisi giudiziarie e pressioni della destra estrema, ogni concessione reale a Gaza rischierebbe di essere percepita come una sconfitta politica. Perciò punta a trasformare la tregua in un percorso condizionato da garanzie e clausole, guadagnando tempo e mantenendo mano libera senza pagare un prezzo politico diretto.

Gaza è solo l’ingresso di un progetto più ambizioso. Netanyahu mira a sfruttare l’instabilità regionale per ridisegnare il Medio Oriente. Siria debilitata, Libano in crisi, Iran sotto pressione, Turchia e Qatar in espansione: secondo Tel Aviv, è il momento giusto per prendere decisioni decisive. L’obiettivo politico-ideologico centrale è colpire i Fratelli Musulmani, considerati il nucleo di tutte le forme di islam politico contrarie a Israele e alla sua influenza regionale.

La guerra a Gaza si inserisce in un quadro più ampio: rimodellare la coscienza politica e culturale della regione, aprire la strada a una normalizzazione su larga scala basata sull’Ibrahimità come quadro religioso-culturale alternativo, superare conflitti storici e trasformare Israele in partner “naturale” di un nuovo sistema regionale.

Al centro di questo progetto, la Siria è cruciale. Netanyahu spinge per una Siria frammentata, che impedisca la nascita di uno Stato forte, limiti l’influenza turca e qatariota, mantenga aperti i fronti per azioni israeliane e tagli le linee di rifornimento iraniane, colpendo Hezbollah come elemento chiave nel bilanciamento regionale.

La questione curda gioca un ruolo strategico: sostenere le ambizioni curde in Siria e Iraq serve da leva su Turchia e Iran, favorisce fratture interne e permette a Israele di influenzare indirettamente la ristrutturazione della regione senza guerre dirette.

Netanyahu cerca così di posizionare Trump come “eroe”: un presidente che ristabilisce l’egemonia americana, frantuma l’islam politico, indebolisce gli assi concorrenti e guida il ridisegno del Medio Oriente tramite Gaza, Siria e Libano. Ma il rischio è enorme: un confronto totale con Iran e Hezbollah, o con Turchia e Qatar, potrebbe incendiare la regione e sfuggire al controllo americano.

Tra l’ambizione di Netanyahu di una soluzione globale e la prudenza di Trump di evitare un conflitto aperto, il Medio Oriente si trova a un bivio: una tregua temporanea che nasconde tensioni profonde o un ridisegno calcolato della regione, con un costo potenzialmente superiore alla capacità di gestione di tutti, aprendo la strada a un caos di lungo periodo più che a una pace stabile.

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