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Algeria - La Rivolta d' Algeria e gli intellettuali

  • 29 giu
  • Tempo di lettura: 3 min

Maddalena Celano (Assadakah News) - Jean-Paul Sartre e la guerra d’Algeria: la parola come resistenza

Durante gli anni più oscuri del colonialismo francese, pochi intellettuali ebbero il coraggio di sfidare apertamente il potere e la sua narrazione dominante. Tra questi, Jean-Paul Sartre fu senza dubbio la figura più coerente, radicale e intransigente. Filosofo, scrittore e militante dell’esistenzialismo, Sartre non si limitò alla critica teorica del colonialismo: fece della sua penna un’arma contro l’oppressione, diventando un simbolo dell’impegno anticolonialista.

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"L’Algérie n’est pas la France"


Il suo impegno nei confronti dell’Algeria precede la guerra ufficiale. Già nel 1948 Sartre aveva partecipato al congresso del partito indipendentista marocchino Istiqlal, e nel 1952 aveva rilasciato un’intervista al giornale di Ferhat Abbas, leader nazionalista algerino. Ma è con l’inizio della guerra, nel novembre 1954, che l’impegno di Sartre si radicalizza. Nel 1955, sulle pagine di Les Temps Modernes, rivista da lui diretta, appare l’articolo dal titolo inequivocabile: "L’Algérie n’est pas la France". È una rottura netta con la retorica coloniale della “Francia indivisibile”.


"Il colonialismo è un sistema"


Nel gennaio 1956, Sartre partecipa a un incontro per la pace in Algeria e tiene un discorso che diventerà uno dei suoi testi più celebri: "Il colonialismo è un sistema". In esso smonta i meccanismi economici, politici e culturali dell’oppressione coloniale, definendo il colonialismo come un sistema organico, violento e razzista. Per Sartre, il colonialismo non è una devianza, ma un ordine strutturato che impone la “sub-umanità” a interi popoli.

La sua presa di posizione gli costa caro. L’OAS (Organizzazione dell’Esercito Segreto), gruppo paramilitare di estrema destra, fa esplodere due ordigni davanti al suo appartamento in rue Bonaparte. Ma Sartre non arretra: nel 1961 scrive la prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon, psichiatra e militante della causa algerina, definendo la violenza anticoloniale una necessità storica.

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La violenza della decolonizzazione


Nella sua lettura, la violenza non è solo uno strumento del colonizzatore, ma può diventare anche una forza liberatrice: “La violenza, come la lancia di Achille, può cicatrizzare le ferite che ha inflitto”, scrive Sartre. Una tesi controversa ma centrale per comprendere la sua visione dell’impegno: la storia non si redime con il silenzio, ma con l’azione, anche drammatica, dei popoli oppressi.

L’antitesi colonizzatore/colonizzato si traduce, per Sartre, in una nuova dialettica storica. Il proletariato non è più il solo soggetto rivoluzionario: i colonizzati assumono un ruolo centrale nella trasformazione del mondo. Questo scivolamento etico, come lo definì Mohammed Harbi, è il cuore dell’impegno sartriano: dare voce a chi è stato ridotto al silenzio.


La responsabilità collettiva


Sartre chiama in causa la complicità silenziosa della società francese. Nei suoi articoli denuncia il razzismo sistemico, l’ipocrisia dei media, la censura degli apparati statali. Rievoca il concetto di “responsabilità collettiva” già formulato a proposito della Germania nazista: “All’epoca dicevamo: sapevano tutto. E ora? Anche noi sappiamo tutto. Oseremo ancora condannarli? Oseremo ancora assolverci?”.

Il colonialismo, secondo Sartre, è una malattia: “Una cancrena che si estende, un’infezione morale che devasta la civiltà europea”. Le sue parole sono scandite da metafore corporee, come se l’Europa avesse bisogno di espellere il veleno coloniale per sopravvivere alla propria decadenza.


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Tra militanza e testimonianza


Lontano dall’accademismo, Sartre partecipa attivamente al movimento contro la guerra. Firma il Manifesto dei 121, partecipa a manifestazioni, presenzia ai processi dei militanti del FLN e dei “porteurs de valise” francesi, come Francis Jeanson. Al grido “Fucilate Sartre!”, risponde con una presenza pubblica sempre più esposta. Non arretra nemmeno di fronte agli attentati.

Nella sua celebre prefazione a Fanon, Sartre rivolge un appello ai francesi: “Otto anni di silenzio è degradante. [...] Sapete benissimo che abbiamo sfruttato, affamato, massacrato un popolo per costringerlo a inginocchiarsi. È rimasto in piedi. Ma a quale prezzo!”.

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Un lascito scomodo e attuale


La parola di Sartre non è “recuperabile”. Il suo anticolonialismo radicale, la sua insistenza sul legame tra cultura e potere, tra intellettuale e responsabilità politica, disturbano ancora oggi. Nel tempo delle guerre “umanitarie”, delle democrazie esportate con le bombe e delle retoriche ipocrite dei diritti umani, il suo pensiero è un pugno nello stomaco.

L’intellettuale per Sartre è “un chierico” che deve scegliere: o sta con gli oppressi, o con gli oppressori. Non c’è neutralità possibile. Ecco perché la sua voce è ancora necessaria, nel tempo delle nuove guerre e delle vecchie menzogne.


Fonti principali:

  • Jean-Paul Sartre, Situations V (Gallimard, 1964)

  • Frantz Fanon, I dannati della terra (Einaudi, 2000)

  • Anne Mathieu, “Jean-Paul Sartre e la guerra d’Algeria”, Le Monde Diplomatique, 2004

  • Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo (Présence africaine, 1955)

  • Henri Alleg, La Question (Éditions de Minuit, 1958)

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