“Califfato Ottomano” e “Grande Israele”: arabi fra incudine e martello
- 19 ago
- Tempo di lettura: 2 min
Wael Almawla - Nel giro di pochi giorni soltanto, due dichiarazioni provenienti da Ankara e Tel Aviv hanno scatenato una tempesta di polemiche, poiché sembrano svelare i contorni di un conflitto più ampio che va oltre la politica attuale, verso progetti storici che ridisegnano la mappa della regione.

Erdogan evoca il Califfato
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in un discorso rivolto ai giovani del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo ad Ankara (13 agosto 2025), ha invitato le nuove generazioni a marciare “con passo deciso verso la Mecca”, richiamando le glorie degli eserciti ottomani che per decenni percorsero l’Europa e l’Africa “gridando Dio, Dio”. Erdogan non si è limitato a parlare di identità islamica e unità nazionale, ma ha tracciato l’immagine dei giovani come “quadri” incaricati di portare avanti un progetto che travalica i confini della Turchia, come a dire chiaramente: il futuro è nostro se recuperiamo lo spirito del Califfato.
Netanyahu agita il “Grande Israele”
Parallelamente, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è intervenuto sui media israeliani, dichiarando il suo “legame spirituale ed emotivo con la visione della Grande Israele”, mostrando una mappa che si estende a includere Palestina, Giordania, Siria, Libano ed Egitto. Le sue affermazioni hanno suscitato una vasta ondata di indignazione nel mondo arabo, considerate come un annuncio esplicito di ambizioni espansionistiche che vanno oltre il conflitto israelo-palestinese.
Due progetti imperialisti
La contraddizione è solo apparente: i due discorsi - quello ottomano e quello sionista - si incrociano in un punto essenziale, entrambi riflettono una pulsione imperiale in cerca di espansione a spese della geografia araba.
Erdogan sfrutta la simbologia religiosa e storica per ripristinare un ruolo ottomano nel suo ambiente arabo.
Netanyahu si fonda sui testi biblici e sull’immaginario sionista per costruire Israele “dal Nilo all’Eufrate”.
Gli arabi tra incudine e martello
Le reazioni arabe al discorso di Netanyahu sono state dure e di rifiuto, ma il problema è più profondo: gli stessi Paesi arabi oggi appaiono come un terreno fragile tra i due progetti.
In Siria, Iraq, Libia e Yemen, la frattura interna ha spalancato le porte all’intervento sia turco sia israeliano. In altri Stati cresce il timore che i progetti di normalizzazione o le alleanze regionali si trasformino in un paravento per legittimare tali mire.
Quale futuro attende la regione? La preoccupazione maggiore è che gli arabi, fino a questo momento, non possiedono un progetto unitario per affrontare queste sfide. La Turchia mobilita la sua gioventù verso la rinascita del “Califfato”. Israele mobilita la sua società verso la “Grande Israele”. Gli arabi, invece, continuano a mancare di una roadmap condivisa che tuteli la loro sovranità e i loro equilibri.
I discorsi di Ankara e Tel Aviv non sono semplici messaggi interni, ma dichiarazioni esplicite di ambizioni espansionistiche che riportano alla memoria l’epoca degli imperi in lotta. E con l’assenza di un progetto arabo alternativo, la regione resta minacciata dal dissolvimento tra l’incudine del “Califfato promesso” e il martello della “promessa biblica”, in un momento in cui le trasformazioni regionali e internazionali accelerano.
Commenti