Le donne arabe e "latine" con Francesca Albanese
- 13 lug
- Tempo di lettura: 3 min
Con Francesca Albanese contro l’imperialismo travestito da emancipazione - Maddalena Celano (Assadakah News).

Introduzione: la posta in gioco
In un’epoca di revisionismi tossici e di strumentalizzazioni sistematiche del linguaggio dei diritti umani, è urgente riaffermare che il femminismo autentico non è mai stato neutrale, né compatibile con l’oppressione sistemica. Non è nato nei consigli d’amministrazione, nelle ONG cooptate né tantomeno tra i testimonial pubblicitari delle multinazionali.
Il vero femminismo, quello radicato nella storia, nasce invece nei quartieri operai, nelle colonie, nei campi di prigionia, nei fronti di guerra anticoloniali, e si manifesta oggi anche nel sostegno a figure coraggiose come Francesca Albanese, relatrice speciale ONU sui diritti umani nei Territori Palestinesi occupati, ingiustamente bersaglio di campagne diffamatorie.

Femminismo e guerra: smascherare la retorica “umanitaria”
Negli ultimi decenni, un certo femminismo neoliberale e postmoderno – quello che celebra ministri della guerra in tailleur o applaude le bombe “rosa” sganciate in nome dei “diritti delle donne” – ha sostituito l’impegno politico con la performance etica. Una retorica vuota che, paradossalmente, ha legittimato le più violente imprese coloniali del nostro tempo.
Ricordiamo l’Afghanistan: “liberare le donne” era la scusa. Ricordiamo la Libia: “diritti umani”, dicevano. Oggi tocca alla Palestina: chi denuncia l’apartheid viene accusato di antisemitismo.
In questo contesto, Francesca Albanese diventa bersaglio non solo in quanto giurista indipendente, ma soprattutto in quanto donna che rifiuta di stare “al suo posto”. Non piegandosi al dogma imperiale, viene dipinta come eccessiva, “militante”, “radicale” – proprio come lo erano, ieri, Angela Davis, Leila Khaled o Rosa Luxemburg.

Chi sta con Francesca? Non le lobby, ma le donne del mondo
Nonostante l’assordante silenzio di molte femministe “ufficiali” – spesso più attente ai riconoscimenti istituzionali che alla coerenza etica – numerosi collettivi femministi radicali e decoloniali hanno espresso pieno sostegno a Francesca Albanese e alla causa palestinese:
Feminists for Palestine – rete transnazionale anticoloniale Jewish Voice for Peace – Feminist Caucus – donne ebree antisioniste Women in Black – femministe pacifiste contro ogni occupazione Non Una di Meno (alcune sezioni locali) – voci contro l’imperialismo patriarcale Reti latinoamericane come Mujeres por la Paz con Palestina e i movimenti femministi nicaraguensi, argentini, boliviani MADRE – ONG femminista internazionale impegnata in contesti di guerra e occupazione
Questi gruppi ricordano che la sorellanza non può esistere senza giustizia, e che non c’è emancipazione possibile in un mondo dove un popolo intero – come quello palestinese – è privato del diritto alla vita, alla terra, alla dignità.
Contro la cancellazione simbolica: il colonialismo del discorso

La persecuzione simbolica contro Francesca Albanese è anche un esempio perfetto di quella che Gayatri Spivak chiamerebbe “la cancellazione della subalterna”: il potere che si difende silenziando chi osa dare voce agli oppressi.
Quando una donna, giurista, italiana, impegnata a difendere i diritti umani dei palestinesi, viene attaccata dai media occidentali, censurata, sanzionata e messa all’indice come “problematico elemento”, ciò non è un incidente. È la riproduzione sistematica del potere patriarcale e coloniale, travestito da burocrazia e diplomazia.

Riprendiamoci il femminismo!
È tempo di riscrivere pubblicamente la narrazione: Il femminismo non è prodotto da Harvard, ma dalle fabbriche e dalle trincee. Non nasce per legittimare l’ordine globale, ma per rovesciarlo. Non sta con chi bombarda, ma con chi resiste.
Chi oggi tace sulla Palestina – o peggio, attacca chi la difende – non ha alcun titolo per parlare in nome delle donne. Il femminismo che merita di essere trasmesso è quello che lotta contro ogni dominio, anche quello invisibile, mascherato da civiltà.
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