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Saleh al-Jaafari - Così muore il volto di Gaza

  • 13 ott
  • Tempo di lettura: 3 min
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Maddalena Celano (Assadakah News) - Morire il giorno dopo la tregua, dopo essere sopravvissuto a un genocidio. È la sorte di Saleh al-Jaafari, giovane giornalista palestinese ucciso il 12 ottobre 2025 nel quartiere di al-Sabra, a Gaza City.


Aveva 27 anni. Era sopravvissuto a un anno di bombardamenti, fame, assedi, e aveva continuato a documentare la distruzione della sua terra con un semplice telefono in mano, fino all’ultimo respiro.


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Dalle strade di Gaza ai social network


Saleh non era un giornalista nel senso tradizionale del termine.


Era un ragazzo comune, nato e cresciuto tra le rovine di Gaza, che aveva scelto di trasformare il proprio sguardo in testimonianza.


Durante i bombardamenti del 2023-2024, iniziò a filmare le esplosioni, i soccorsi, i corpi senza vita dei bambini, urlando “Allahu Akbar” davanti all’orrore che nessuna telecamera internazionale mostrava più.


Con il tempo, i suoi video — condivisi sui social — raggiunsero milioni di persone. Era diventato un simbolo della resistenza civile palestinese, un cronista di strada, un testimone diretto della catastrofe.

Aveva poi iniziato a collaborare con alcune testate locali, ma continuava a definirsi semplicemente “un ragazzo con un telefono”.


In un contesto in cui l’informazione è bloccata, censurata e filtrata da poteri militari e mediatici, la sua voce era diventata scomoda.


Aveva ricevuto minacce, era stato accusato di simpatie per Hamas e di “propaganda”, ma non aveva mai smesso di filmare.


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L’assassinio


Il 12 ottobre 2025, la milizia Daghmush, legata a gruppi armati sostenuti da Israele, lo ha catturato nel quartiere di al-Sabra, mentre stava realizzando un servizio video.


È stato tenuto prigioniero per ore e poi giustiziato con sette colpi di pistola a bruciapelo.


Il suo corpo è stato portato all’ospedale di Shifa, dove i medici ne hanno confermato la morte.

Morire così, il giorno dopo la tregua, è un simbolo tragico del destino di Gaza:


anche quando il rumore delle bombe si ferma, la guerra continua nelle strade, nelle vendette, nelle milizie, nei corpi dei giovani che hanno raccontato troppo.


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Un simbolo della verità palestinese


Saleh al-Jaafari rappresentava una nuova generazione di comunicatori palestinesi, cresciuti sotto assedio e armati solo di connessioni e coraggio.


Non apparteneva a nessuna élite, non aveva protezione diplomatica né riconoscimento internazionale.


Era una voce popolare, indipendente, radicata nella comunità che lo circondava.


La sua forza stava proprio in questo: nel non essere “neutrale”.


In un contesto dove l’asimmetria è totale — tra chi bombarda e chi documenta le rovine — la neutralità non è un valore, ma una forma di complicità.


Il silenzio del mondo


La sua morte, come quella di oltre cento giornalisti palestinesi uccisi dall’inizio dell’offensiva israeliana, non ha ricevuto l’eco che merita.


L’Occidente, che parla di “libertà di stampa” solo quando conviene, ha taciuto.


Eppure, senza Saleh e senza i suoi colleghi, il mondo non avrebbe mai visto Gaza.


Non avrebbe visto i quartieri rasi al suolo, i bambini feriti, i genitori che scavano con le mani.


Ha pagato con la vita il diritto del suo popolo a essere visto, a essere ricordato.


Morire testimoniando


Forse non sapremo mai se la sua uccisione sia stata una vendetta, un messaggio politico o solo un atto di terrore.


Ma sappiamo che la sua voce non si spegne: rimane nei video, nei post, nelle immagini che hanno attraversato confini e censure.


Saleh al-Jaafari è morto come è vissuto — testimoniando.


E il suo sguardo, quello di un ragazzo che non ha voltato la testa davanti all’orrore, è oggi parte della memoria collettiva del mondo arabo e di chi crede ancora nella verità.

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