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Ernesto "Che" Guevara unisce le Americhe al mondo arabo

  • 8 ott
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 9 ott

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Maddalena Celano (Assadakah News)


“La solidarietà è la tenerezza dei popoli.”


— Ernesto “Che” Guevara


Il 9 ottobre 1967, in una scuola di La Higuera, in Bolivia, veniva assassinato Ernesto “Che” Guevara, medico argentino, guerrigliero, pensatore e simbolo immortale della liberazione dei popoli. Sono trascorsi cinquantotto anni da quel giorno, eppure la sua figura resta intatta nella coscienza collettiva di chi continua a credere nella possibilità di un mondo più giusto. In questi giorni, in America Latina, in Africa e nel mondo arabo, il suo volto riemerge nei cortei, nei dibattiti, nelle piazze, nei murales e nei cuori di chi non si arrende all’imperialismo e alla rassegnazione.

Guevara non fu soltanto un combattente per la libertà cubana, ma un rivoluzionario del Terzo Mondo, convinto che la liberazione di un popolo non potesse essere completa senza la liberazione di tutti. Nella sua visione, le rivoluzioni dell’America Latina, dell’Africa e del mondo arabo costituivano parti di un unico processo globale di emancipazione contro le catene economiche, politiche e culturali imposte dall’Occidente.

È in questo spirito che nel 1959, dopo il trionfo della Rivoluzione cubana, Guevara intraprese un lungo viaggio politico e diplomatico che lo portò anche nel Medio Oriente. Visitò l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, la Siria e, soprattutto, la Striscia di Gaza, allora sotto amministrazione egiziana. Quella visita, spesso dimenticata in Occidente, rappresenta un capitolo fondamentale della sua storia: il Che si recò nei campi profughi palestinesi e parlò direttamente al popolo esiliato, riconoscendone la dignità, la sofferenza e la forza. Con parole semplici ma potenti, dichiarò che la causa palestinese era parte integrante della lotta mondiale contro l’imperialismo.

Quella dichiarazione, in un’epoca in cui la Palestina era quasi ignorata dalle potenze internazionali, fece il giro del mondo arabo. Da quel momento, il Che divenne un simbolo di solidarietà per i popoli arabi, non soltanto come icona rivoluzionaria, ma come compagno di lotta. I giornali egiziani e siriani dell’epoca lo definirono “l’amico dei popoli arabi”, “il medico dei poveri e dei combattenti”. Nasser lo accolse con stima e rispetto, riconoscendo in lui un fratello nella battaglia per la decolonizzazione e la sovranità dei popoli.

L’incontro tra il socialismo latinoamericano e il panarabismo nasseriano segnò un momento alto dell’internazionalismo politico del Novecento. Entrambi i movimenti vedevano nella liberazione nazionale un passo necessario verso la giustizia sociale, nella dignità dei popoli la base di una nuova umanità, e nella resistenza la forma più autentica della pedagogia politica. Guevara condivideva con Nasser l’idea che la rivoluzione non potesse essere imposta dall’alto, ma dovesse nascere dal basso, dal popolo che prende coscienza della propria forza e della propria storia.

Oggi, a cinquantotto anni dalla sua morte, la memoria del Che continua a vivere nei cuori del mondo arabo: a Gaza, dove i suoi ritratti accompagnano i cortei di resistenza; a Beirut, dove studenti e militanti lo citano come simbolo di dignità e coraggio; al Cairo, dove ancora si ricordano i giorni della sua visita come segno di fratellanza tra due rivoluzioni. Nei campi profughi palestinesi, nelle università arabe e nei movimenti giovanili anticoloniali, il suo nome è pronunciato con rispetto profondo, come quello di un martire della libertà universale.

L’Occidente ha spesso tentato di ridurre la figura del Che a un’icona estetica, svuotata del suo contenuto politico. Ma nei paesi del Sud globale, e in particolare nel mondo arabo, egli rimane un simbolo vivo di resistenza, un compagno di lotta contro ogni forma di oppressione. In un’epoca segnata da guerre d’aggressione, occupazioni militari, apartheid e disuguaglianze crescenti, la sua voce continua a interpellarci: invita alla coerenza, alla solidarietà, alla ribellione etica.

Ricordare Guevara non significa ripetere slogan, ma riconnettersi a una visione del mondo in cui la giustizia è universale e indivisibile. Significa riscoprire il coraggio di dire no, di opporsi, di costruire alternative. È un atto di memoria e di futuro, di radici e di orizzonti.

Cinquantotto anni dopo La Higuera, il volto del Che non è un’icona da museo, ma una stella che continua a indicare la rotta a chi lotta per la libertà — a Cuba, in America Latina, in Africa, e in ogni terra araba che resiste.

Viva il Che. Viva la solidarietà dei popoli. Viva la Palestina libera.


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