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Speciale Libano - Le elezioni viste da uno straniero

Roberto Roggero – Da non libanese, e tuttavia profondamente innamorato del Libano, che è un Paese stupendo, ho a cuore la sorte di una terra che da troppo tempo vedo sopravvivere anziché vivere. L’occasione per un giro di volta si sta presentando von le elezioni di oggi, 15 maggio, con cui 245mila elettori di vari distretti hanno occasione di decidere, e sono ben più degli 82mila delle ultime elezioni. I libanesi residenti oltre i confini nazionali sono circa 12 milioni, in numerosi Paesi del mondo. Solo negli Emirati Arabi, considerati in proporzione agli abitanti, sono 100mila, di cui 18mila hanno espresso il loro voto, secondo quanto riferito dalla emittente LBCI, con un picco di affluenza del 77% nel solo emirato di Abu Dhabi, seguita da Dubai con il 71%.

In quattro anni i cittadini in aumento che vogliono votare sono stati sostenuti soprattutto dalla rabbia e dalla determinazione, perché il Libano, a partire dal 2019, dopo chiari segnali che non sono stati ascoltati, è precipitato in una situazione di emergenza senza precedenti: il default del 2020 con un debito di oltre un miliardo di dollari; la svalutazione della valuta nazionale fino al 90% del valore rispetto al dollaro, con un rapporto di 1$=1.500 lire libanesi; il drastico calo del potere di acquisto a causa dell’immutabilità dei salari dei lavoratori e del reddito netto delle famiglie; la tragedia del porto di Beirut dell’agosto 2020 con altre decine di miliardi di danni, gli sfollati, il problema della gestione dei profughi di diversi altri Paesi del Medio Oriente, in particolare palestinesi e siriani. Non ultimo, l’endemico tarlo della corruzione, che ha spinto la popolazione a dire “Basta!”. L’esplosione del porto ha innescato una vasta serie di diramazioni per quanto riguarda le inchieste su personalità particolarmente in vista, uno fra tanti il governatore della Banca del Libano, Riyad Salame, anello di una lunga catena di nomi importanti; e poi gli investigatori, i pm e i giudici titolari delle inchieste in corso, diventati a loro volta obiettivo di discredito per il sistema stesso della giustizia fino ad oggi poco affidabile, a opinione della maggioranza della popolazione, che non ha più alcuna disposizione verso la credibilità e la trasparenza dell’apparato governativo.

A tal proposito, ci sono state manifestazioni di protesta, una delle quali (lo scorso ottobre, contro il giudice Tarek Bitar, che dirige le indagini sull’esplosione al porto) ha causato scontri a fuoco. A preoccupare, inoltre, il tasso di povertà che si è alzato fino all’82% su una popolazione di circa 4,5 milioni di persone.

A vedere dall’esterno la situazione, salvo pochissime singole eccezioni, è chiara la sfiducia nei partiti politici tradizionali, specie quelli che negli anni ’80 avevano anche milizie armate fra le proprie fila, conseguenza della guerra civile. Di fatto, le nuove forze politiche incontrano una ostilità ben spessa nell’elettorato. Ogni causa ha un effetto. Esistono poi radicate rivalità …non è un segreto che tra Forze Libanesi e Hezbollah, due fra le maggiori forze politiche popolari, non esista molta simpatia.

E’ una catena di sottili meccanismi e delicati contrappesi, perché il Libano è sì un esempio di convivenza di una quindicina di comunità diverse per cultura, religione, tradizione, politica, ma lo è proprio perché tutti questi elementi sono stati fino a oggi in equilibrio, fra alti e bassi.

Per i libanesi all’estero, i cui depositi di denaro hanno sempre costituito una entrata a sostegno di iniziative sociali come scuole e ospedali, e qui entrano in campo le banche, non solo quella nazionale, ma altre che sono oggi al centro di indagini e inchieste.

In sostanza, le liste elettorali delle elezioni odierne, sono 103 e si presentano in una quarantina di distretti e sotto-distretti, con 116 candidate donne, fra cui Verna Amil, di soli 25 anni, e la nota conduttrice tv Paula Yacoubian. Diversi sono anche i candidati singoli, usciti da partiti tradizionali, e questo è un fenomeno singolare in Libano, finalizzato a un rinnovamento anti-establishment.

Il fronte di opposizione alle forze di governo, d’altra parte, si presenta come blocco, ma sono innegabili certe divisioni interne, evidenti nei programmi elettorali presentati ufficialmente: la sinistra che preme per una legge che autorizzi l’incriminazione per reati legati alla corruzione, senza distinzione di carica politica o grado militare; privatizzazione di alcuni settori per salvaguardare il settore bancario.

Al governo ci sono in gioco 128 seggi, tradizionalmente divisi, come stabilisce la Costituzione, per confessioni religiose, che si trovano alle più importanti elezioni da oltre dieci anni, durante i quali sono aumentati i libanesi nel mondo, per una vera e propria diaspora, che oggi sono circa 12 milioni, il triplo di quelli che vivono in Libano. E che votano, in quanto cittadini libanesi, per la prima volta, per tutti i 128 seggi, e non per soli sei riservati ai soli candidati all’estero.

Inoltre, da considerare che il Libano è da secoli uno dei Paesi più vari dal punto di vista religioso, con una comunità cristiana molto numerosa, che fino a qualche decennio fa costituiva la maggioranza. Oltre a un’iniziale divisione fra cristiani e musulmani, c’è poi un’altra serie di differenze religiose e settarie, ramificate in 18 confessioni religiose riconosciute. Questa varietà religiosa ha fatto sì che per secoli in Libano siano stati in vigore sistemi di governo o di amministrazione di tipo confessionale, in cui il potere all’interno dello Stato (e in conseguenza le cariche politiche) è attribuito sulla base della confessione religiosa, con quote rigide e immutabili.

Fra gli elementi che possono creare difficoltà per un rinnovamento, da non trascurare il sistema derivato da esperienze storiche e politiche risalenti alla guerra civile. Uno dei cordoni ombelicali che andrebbe finalmente reciso, ma ancora oggi imperante, nonostante l’obiettivo degli accordi di Taif, che posero fine al conflitto civile, ma che di fatto legittimarono il sistema stesso. Tale sistema regola la distribuzione delle cariche, ed è proprio qui il nocciolo della questione, se a certe confessioni religiose sarà sempre riservata una determinata carica politica: il presidente della Repubblica deve essere cattolico maronita; il primo ministro musulmano sunnita; il presidente del Parlamento musulmano sciita; vice-primo ministro e vicepresidente del Parlamento, cristiani greco-ortodossi; il capo di stato maggiore dell’esercito druso (vicina agli sciiti), e così dicendo. Ma non è tutto: le comunità religiose riconosciute dallo Stato hanno diritto a una quota fissa di seggi in Parlamento, ottenuta con una complessa organizzazione di distretti elettorali. Le quote per ciascuna comunità sono immutabili: dopo ogni elezione la divisione del Parlamento deve rimanere sempre la stessa, e ciascun gruppo deve mantenere lo stesso numero di seggi: 34 per cattolici maroniti; 14 a cristiani greco-ortodossi; 8 a cattolici melchiti; 5 ad apostolici armeni; uno ai protestati e un altro per le diverse minoranze. Inoltre, 27 seggi a sunniti e altrettanti agli sciiti; 2 agli Alawiti; 8 ai Drusi.

Il sistema confessionale rende la vita politica in Libano molto caratteristica. Benché nato per la concordia fra le diverse comunità, il sistema non ha impedito alla politica di essere eccezionalmente settaria, e con manifestazioni anche violente, come l’attentato al primo ministro Rafiq Hariri, nel 2005. Da contare poi la forza nazionale e internazionale di Hezbollah. Negli anni il sistema settario ha purtroppo approfondito le divisioni, anziché riavvicinarle, chiaro obiettivo di quella classe politica che ha tutto l’interesse a mantenere il sistema settario, contrapposto ai partiti multiconfessionali, con candidati provenienti da differenti comunità e confessioni, che al governo sono determinanti per le varie alleanze.

Questa ragnatela, però, al tempo stesso è stata la causa della fragilità e della vulnerabilità dell’amministrazione politica e sociale libanese, e proprio su questo hanno contato i grandi speculatori nazionali e stranieri, sparpagliando la corruzione nei nodi cruciali del sistema stesso. Un sistema ridotto alla immobilità e non alla dinamicità, proprio perché restasse nello stesso equilibrio di sempre, che tenesse fuori le nuove forze innovative, i giovani e le donne.

Quelle riforme economiche e sociali che i libanesi giustamente pretendono, sono a tal punto necessarie che proprio per questo spaventano, ed è difficile trovare qualcuno che se ne assuma la responsabilità, visto il rischio.

In conclusione, in Libano è in gioco il sistema politico e amministrativo confessionale, che è il tema più criticato dai libanesi, ma prima di rinnovarlo, bisogna trovare qualcosa con cui farlo, un nuovo sistema, e non è cosa facile. Saranno davvero i libanesi ad avere il potere di cambiare la situazione, oppure comanderà ancora una volta la “ragion di Stato?”…

(Roberto Roggero)

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