In Italia ancora islamofobia orientalista
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🏛️ Dissenso e Sicurezza: Una Critica all'Espulsione Ideologica.
Maddalena Celano (Assadakah News)
Il caso dell'Imam Shanin di Torino, un residente di lungo corso espulso per aver espresso sostegno alla causa palestinese, ci obbliga a una riflessione critica sulla gestione della sicurezza nazionale e sull'integrità della libertà di espressione in Italia. Questo evento non è un incidente isolato, bensì il sintomo di un meccanismo ideologico che utilizza l'apparato statale per finalità di censura politica.
Per comprendere la gravità di tale azione, è essenziale analizzare la lente orientalista attraverso cui il dissenso islamico viene interpretato. Questa lente, ereditata da secoli di rappresentazioni distorte e monolitiche dell'Oriente da parte dell'Occidente, riduce la multiforme realtà delle comunità musulmane a un unico blocco, intrinsecamente ostile e semplificato. Non si riconosce la complessità, la diversità di posizionamento ideologico o l'esistenza di voci progressiste e riformiste. Al contrario, ogni espressione di solidarietà per una causa geopolitica sensibile, come quella palestinese, viene immediatamente incasellata nella categoria del potenziale "estremismo". Questa semplificazione opera una fondamentale delegittimazione preventiva del dissenso stesso.
L'islamofobia, in questo contesto, trascende il mero pregiudizio sociale per diventare una vera e propria tecnica di controllo ideologico. Essa fornisce la giustificazione perfetta per l'intervento statale. Colpendo l'individuo non-cittadino, ovvero l'anello più debole della catena, lo Stato sfrutta una vulnerabilità legale—la revoca del permesso di soggiorno per motivi di "ordine pubblico"—per compiere un atto che sarebbe giuridicamente più arduo se rivolto a un cittadino italiano per il solo reato di opinione.
L'espulsione, dunque, assume il valore di un monito esecutivo. Non si tratta solo di neutralizzare una presunta minaccia alla sicurezza, ma di intimorire le piazze e di silenziare chiunque non si conformi alla narrativa dominante, spesso etichettata come Occidentale-atlantista. La causa palestinese diventa, in questa fase di israelizzazione del dibattito, un terreno pericoloso su cui manifestare, e l'espulsione dell'Imam viene sbandierata come il "trofeo" per dimostrare che il prezzo della non-allineamento è l'estromissione.
È cruciale evidenziare come questa strategia repressiva sia profondamente controproducente. Lungi dal favorire l'integrazione o la moderazione, essa sortisce l'effetto opposto. In primo luogo, occulta la diversità e rende quasi impossibile per le posizioni moderate e riformiste ottenere visibilità e credibilità, poiché l'unica immagine riconosciuta dall'autorità è quella del monolite minaccioso. In secondo luogo, e ben più pericolosamente, la percezione di essere perseguitati e criminalizzati in blocco alimenta un profondo senso di alienazione. Questa reazione può spingere i margini di una comunità verso una radicalizzazione identitaria, trasformando la critica politica in opposizione sistemica e finendo per convalidare, paradossalmente, la narrativa securitaria che si voleva inizialmente smentire.
In conclusione, la battaglia per la giustizia in Palestina e la lotta contro l'islamofobia non sono atti separati; sono la stessa battaglia per difendere i principi fondamentali della nostra democrazia. Permettere che il dibattito venga soffocato e che le categorie di sicurezza siano utilizzate per imporre un allineamento ideologico significa abdicare alla nostra libertà di espressione e alla nostra capacità di critica. È nostro dovere gridare NO a questa logica.







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