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Mariam e la resistenza delle donne palestinesi

  • 26 ago
  • Tempo di lettura: 2 min

“Non piangere per me, tieni la testa alta”.

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Maddalena Celano (Assadakah News) - C’è un filo che lega le donne palestinesi, da generazioni: un filo di dolore e di dignità, di lacrime e di parole. È il filo che lega Mariam, giornalista uccisa in un raid a Gaza, alla sua ultima lettera al figlio tredicenne Ghaith:“Tu sei il mio cuore, la mia anima. Quando crescerai, chiama tua figlia Mariam come me. Non piangere per me, tieni la testa alta”.

Queste parole non sono soltanto un addio: sono una eredità politica e femminista. Mariam sapeva che la sua vita era in pericolo, ma non ha rinunciato al gesto più radicale: scrivere. Dare senso al dolore, trasformare la paura in memoria.


Giornaliste nel mirino


La sua storia si unisce a quella di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera assassinata nel 2022 a Jenin, colpita mentre raccontava la realtà dell’occupazione. Anche Shireen era una donna che aveva scelto la verità come mestiere, e per questo era diventata un bersaglio.Oggi, come allora, la dinamica è la stessa: eliminare chi racconta, colpire chi testimonia, spegnere le voci che mostrano al mondo ciò che non si deve vedere.

Ma Mariam e Shireen – come tante altre giornaliste, fotografe, attiviste palestinesi – ci insegnano che la verità non muore con chi la pronuncia. La loro parola si fa corpo collettivo, diventa eredità di un popolo.


Madri e resistenti


Essere donna in Palestina significa spesso essere insieme madre e resistente. Non perché lo si sia scelto, ma perché la guerra lo impone. Mariam non parla solo da giornalista: parla da madre, che affida al figlio non la disperazione, ma la dignità.“Tienila alta, la testa”: è un imperativo che attraversa i secoli, che dice ai figli di non piegarsi, alle figlie di non farsi cancellare.

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La forza delle parole femminili


Le parole di Mariam sono femministe perché rovesciano la narrazione dominante: non è vittima silenziosa, ma soggetto che lascia un testamento di forza. In un contesto patriarcale e coloniale, dove le donne sono spesso ridotte a corpi da salvare o da piangere, Mariam sceglie di essere altro: guida, esempio, nome da tramandare.


Un’eredità che ci riguarda


Il suo invito a chiamare una futura figlia “Mariam” non è un gesto privato, ma un atto politico: assicurarsi che il nome delle donne palestinesi non venga mai cancellato. Che ci siano sempre nuove voci, nuovi corpi, nuove vite a ricordare chi è stata spazzata via dalla guerra.

Per questo oggi dobbiamo ripetere il suo nome insieme a quello di Shireen, e a quello di tutte le donne palestinesi cadute nel silenzio. La loro memoria non è pietà, è resistenza collettiva.

Mariam non è sola. Shireen non è sola. Le donne di Gaza non sono sole.

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