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Barhain - Il Toro di Rame e la Fonte di Dilmun

  • 3 ott
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 19 ott

Patrizia Boi (Assadakah News) -  Rubrica Culturale "Le Mille e Una Fiaba" - I Favolosi Paesi della Lega Araba


Capitolo 3 BARHAIN - Il Toro di Rame e la Fonte di Dilmun


Mappa poetica di Dilmun
Mappa poetica di Dilmun

Si narra che, in un tempo immemore, prima che i deserti si stendessero come tappeti infuocati e che il mare s’infrangesse sulle coste del Golfo, esistesse una terra di straordinaria bellezza e purezza, un luogo incantato chiamato Dilmun.


Era una terra baciata dal sole, dove le acque scorrevano limpide e abbondanti, dove la malattia e la morte non avevano potere, dove la vita fioriva in eterna primavera. Dilmun era la dimora degli dèi, un giardino di delizie dove l’immortalità era un dono naturale.


Ma un giorno, gli uomini giunsero in questa terra sacra, portando con sé le loro paure e i loro desideri insaziabili. Con le loro mani avide, cercarono di carpire i segreti dell’immortalità, profanando la purezza di Dilmun.


Gli dèi, adirati, decisero di velare la loro dimora, nascondendola agli occhi degli uomini. Dilmun scomparve, inghiottita dalle sabbie del tempo, protetta da deserti insidiosi, lagune ingannevoli e spiriti antichi che vegliavano sulle tombe dimenticate.


Solo una creatura rimase a custodire il sentiero che conduceva a Dilmun: il Toro di Rame, un essere maestoso forgiato nel fuoco degli dèi, la cui forza primordiale poteva essere placata solo dalla verità del cuore umano.


Per secoli, nessuno osò sfidare il Toro di Rame, nessuno osò cercare Dilmun. La leggenda si trasformò in un sussurro, un ricordo sbiadito, un sogno irraggiungibile. Fino al giorno in cui il cielo si fece arido, e l'acqua smise di cantare.


Jamil e il vento senza pioggia


Jamil nel suo villaggio
Jamil nel suo villaggio

In un villaggio ai margini del deserto, dove la terra era riarsa e il cielo implacabile, viveva Jamil, un giovane apprendista scriba. Nato in una notte di silenzio, sotto una luna rossa come il rame ossidato, Jamil non aveva mai conosciuto la pioggia.


Il suo villaggio era un luogo di sete e disperazione, dove ogni pozzo era un’eco di preghiere inascoltate. Jamil, a differenza degli altri uomini del villaggio, non era forte né coraggioso. Aveva però occhi che sapevano leggere i segni del cielo e mani delicate come quelle di un artista.


Era apprendista del vecchio Sajjad, lo scriba del villaggio, custode di antiche tavolette cuneiformi che narravano storie dimenticate. Una notte, mentre il vento ululava come un lupo ferito, Jamil scoprì una tavoletta spezzata, nascosta in un baule polveroso. Le parole incise sulla tavoletta, in un cuneiforme sbiadito, gli trafissero il cuore come una freccia:


«Quando il Toro di Rame ruggirà, il sentiero di Dilmun tornerà a brillare».


Sajjad, il vecchio scriba, lo guardò con occhi saggi e stanchi, e disse:


«Chi cerca Dilmun, rischia di non tornare. Ma chi non lo cerca… rischia di morire senza aver vissuto».


Quella notte, Jamil sognò acqua. Acqua che sgorgava da pietre lucenti, e un toro dalle corna spiralate che lo fissava in silenzio, come un custode eterno. All’alba, senza salutare nessuno, Jamil raccolse il suo mantello, una borraccia vuota e la tavoletta spezzata. Il deserto lo attendeva, con i suoi segreti e le sue insidie.


Il Deserto degli Echi


Jamil nel Deserto degli Echi
Jamil nel Deserto degli Echi

Il sole si levava lento, come se esitasse a illuminare la desolazione del deserto. Jamil camminava da ore, lasciandosi alle spalle il villaggio inaridito.


Davanti a lui, si estendeva il Deserto degli Echi, un luogo temuto da tutti, dove il vento urlava come un animale ferito e le voci del passato risuonavano tra le dune.


Nessuno osava attraversare il Deserto degli Echi, perché si diceva che fosse il Regno degli Erranti di Dilmun, anime perdute che vagavano senza meta, prigioniere dei loro desideri inappagati. Jamil, però, non si lasciò intimorire. Avanzava con passo leggero, come se il deserto lo accogliesse come un vecchio amico. All’improvviso, il silenzio si ruppe. Voci sussurrate, provenienti da ogni dove, lo avvolsero come un manto di parole:


«Chi cerca la fonte, perda il suo nome…»

«Chi vuole la vita eterna, doni la propria storia…»

«Solo chi ricorda il primo respiro potrà vedere l’ultima acqua…»


Jamil si fermò, turbato. Quelle voci non erano il vento, ma memorie di coloro che avevano cercato Dilmun e si erano persi. Gli parve di vedere ombre muoversi tra le dune: uomini con occhi vuoti, donne dai capelli sciolti, bambini che stringevano vasi d’argilla. Erano gli Erranti di Dilmun, anime intrappolate in un labirinto di ricordi.


Il deserto, allora, gli pose una domanda silenziosa, un enigma che solo il suo cuore poteva risolvere. Jamil cadde in ginocchio, poggiò le dita sulla sabbia e sussurrò il suo vero nome, quello che aveva scoperto nei suoi sogni: Nadi, che in lingua antica significava colui che ascolta. Il deserto tremò, le dune si aprirono: là, tra pietre disposte come vertebre di un serpente antico, vi era un sentiero nascosto. Jamil vi si inoltrò.


Al termine del sentiero, tra pozze secche e colonne spezzate, lo attendeva il Giardino delle Acque Morte. Ma prima di raggiungerlo, una figura eterea emerse dalle sabbie: una donna velata, con occhi d’ambra e voce di resina. Piano pianino gli sussurrò:


«Hai ricordato il tuo nome d’anima. Ma per svegliare il Toro, dovrai dimenticare ciò che ami di più…»


E svanì, come la prima rugiada all’alba.


Il Giardino delle Acque Morte


Alla ricerca del Toro di Rame
Alla ricerca del Toro di Rame

Il sentiero conduceva a una valle nascosta, dove l’aria era immobile come in un sogno. Jamil avanzava in silenzio, attento a non disturbare le pietre. Intorno a lui, si stendeva un giardino spettrale: palme pietrificate, fiori rinsecchiti, vasche asciutte scolpite con volti sofferenti. Era il Giardino delle Acque Morte, un luogo dove i desideri si trasformavano in statue e i ricordi pesavano come macigni. Al centro del giardino, su un piedistallo spezzato, si ergeva un’anfora di alabastro, spaccata in due come un cuore spezzato. Accanto all’anfora, un’iscrizione recitava:


«Chi versa un ricordo, risveglia ciò che dorme nel rame».


Jamil si avvicinò, sentendo l’eco delle parole della donna velata. Doveva offrire ciò che amava di più, il ricordo più prezioso del suo cuore. Ma cosa poteva offrire un ragazzo che non aveva ricchezze, né potere, né amori da proteggere? Chiuse gli occhi e, come un lampo, vide il ricordo più tenero della sua infanzia: sua madre che gli insegnava a leggere le stelle riflesse in una ciotola d’argilla.


Con un dolore lancinante, Jamil posò le dita sul bordo dell’anfora e pronunciò quel ricordo ad alta voce, parola dopo parola, scolpendolo nel tempo. Quando l’ultima sillaba si spense, l’anfora si illuminò e l’aria tremò. Un ruggito sordo scosse la terra e, dalle profondità, emerse il Toro di Rame.


Era una creatura imponente, con corna che brillavano come lune piene e occhi che riflettevano tutte le storie del mondo. Ma non era feroce, non era minaccioso. Era triste, come un essere immortale che ha visto troppe sofferenze. Jamil si inginocchiò davanti a lui. Il Toro abbassò il capo e dalla sua fronte sgorgò una singola goccia, che cadde sulla terra secca del giardino. E il miracolo avvenne. Le piante rinacquero, l’acqua iniziò a scorrere e fiori mai visti prima sbocciarono al sole. Il Toro parlò, non con parole, ma con un messaggio che risuonò nel cuore di Jamil:


«Solo chi dona ciò che non si può perdere, è pronto a ricevere ciò che non si può rubare».


E con un ultimo battito degli zoccoli, il Toro svanì tra i vapori dell’acqua nuova.


Il Ritorno di Jamil


Il ritorno di Jamil
Il ritorno di Jamil

Jamil si incamminò per il sentiero del ritorno camminando senza voltarsi. Alle sue spalle, il Giardino delle Acque Morte era tornato a essere un’oasi vivente, dove l’acqua cantava e la sabbia sorrideva sotto il sole. Ma non era più lo stesso luogo. E nemmeno lui era lo stesso. I suoi piedi lasciavano impronte leggere sulla via del ritorno, come se il vento stesso esitasse a cancellarle. Nel cuore portava il silenzio del Toro, il peso dolce di un ricordo sacrificato, e l’eco di una voce che aveva detto: «Solo chi dona ciò che non si può perdere...»


Jamil tornò al suo villaggio, portando con sé l’acqua della fonte di Dilmun. Il villaggio lo accolse con stupore e gratitudine. Nessuno parlò, ma tutti videro. L’acqua ricominciò a sgorgare dalla roccia sacra, limpida come vetro fuso dal cielo: guarì la terra riarsa, le palme si ridestarono, e il pozzo, ormai secco da generazioni, traboccò fino a bagnare le soglie delle case. Le donne cantarono antiche ninnenanne. I bambini, per la prima volta, corsero a piedi nudi nel fango.


Ma Jamil non si fermò. Salì sulla collina più alta, dove un tempo giocava da bambino, e guardò verso l’orizzonte. Là dove il cielo e la sabbia si baciano, una luce azzurra pulsava come un cuore lontano. Dilmun


La Terra Pura, che esiste e non esiste, visibile solo a chi ha camminato dentro sé stesso fino a perdere il nome. Jamil sorrise. Aveva compiuto il suo viaggio. Aveva trovato la fonte di Dilmun, aveva donato ciò che non si poteva narrare e aveva ricevuto in cambio un silenzio più vasto e profondo.


E così, ancora oggi, si narra che quando il vento cambia direzione e le acque delle sorgenti odorano di rame e resina, il Custode del Toro veglia da lontano, pronto a ricordare il suo vero nome.


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SPECIALE LEGA ARABA

A cura di Roberto Roggero, Patrizia Boi

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