Iran - La Notte di Yalda a Roma
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Patrizia Boi (Assadakah News) - Roma, 21 dicembre 2025 - Mentre le ombre del solstizio d’inverno scendono sulla Capitale, il salone monumentale dell’Hotel Massimo d’Azeglio si è trasformato in un crocevia di civiltà. L’ISMEO ha celebrato la Notte di Yalda (Shab-e Yalda), la notte più lunga dell’anno, con un evento dal titolo evocativo: “Mille e una notte di Yalda”.
A moderare con eleganza la serata è stato Mohsen Yazdani, che ha guidato il pubblico attraverso un programma denso di significati. L'importanza dell'evento è stata sottolineata dalla presenza di alte cariche istituzionali: l'Ambasciatore della Repubblica Islamica dell'Iran in Italia, S.E. Mohammad Reza Sabouri, e il Direttore dell'Istituto Culturale dell'Iran a Roma, il Dott. Seyyed Majid Emami. A fare gli onori di casa, portando i suoi saluti personali, è stato il Dott. Bettoja, proprietario dello storico Hotel ospitante, che ha accolto questo rito millenario nei suoi spazi ancorati alla storia di Roma.
La celebrazione della Notte di Yalda si è trasformata in un ponte vivente tra la Persia del XII secolo e l’Italia contemporanea non soltanto attraverso una celebrazione folkloristica, ma soprattutto con un’immersione profonda nella sapienza di Ḥakīm Neẓāmī Ganjavi e nella divinazione poetica di Ḥāfeẓ, sotto l'egida simbolica del melograno.
Neẓāmī - L’Amore come Architettura Cosmica

Al centro della serata, la performance dell’attore Giovanni Calcagno ha ridato vita a Khosrow e Širīn, il secondo dei "Cinque Tesori" (Panj Ganj) di Neẓāmī. Come ho avuto modo di approfondire nei miei studi sul poeta di Ganja, Neẓāmī non narra una semplice storia d’amore, ma un percorso di elevazione.
Khosrow, il sovrano sasanide, deve spogliarsi del suo egoismo per meritare Širīn, la principessa armena che incarna la rettitudine e la forza morale. La narrazione di Calcagno, accompagnata dalle note di Piero Grassini e Tito Rinesi, ha reso tangibile la tensione tra il desiderio terreno e la perfezione spirituale. Širīn non è una comparsa, ma la guida che trasforma il re in uomo, ricordandoci che la luce che cerchiamo a Yalda è prima di tutto una luce interiore, conquistata attraverso la disciplina del cuore.
Ḥāfeẓ - L’Oracolo della Notte Infinita

Se Neẓāmī rappresenta l’epica della trasformazione, Ḥāfeẓ di Shiraz (XIV secolo) è stato il compagno spirituale della veglia. Durante la serata, è stato celebrato il rito del Fāl-e Ḥāfeẓ.
Non si tratta di una semplice lettura di versi: Ḥāfeẓ parla attrverso la "Lingua dell’Invisibile" (Lisān al-Ghayb). La tradizione vuole che si interroghi il suo Divān chiudendo gli occhi e formulando un desiderio. La poesia che appare è la risposta del destino.
Ḥāfeẓ usa spesso il tema del vino, della taverna e dell’amore per nascondere concetti sufi di unione con il Divino. Nella Notte di Yalda, le sue parole servono a scacciare la paura dell'oscurità, promettendo che "il dolore non durerà per sempre" e che la primavera è già celata nel cuore del gelo.
Melograno - Sangue, Luce e Unità

L’aspetto più straordinario dell’evento all’Hotel Massimo d’Azeglio è stata la centralità assoluta riservata all'esegesi del Melograno (Anār). Non è stato un semplice "contorno" gastronomico, ma il codice semantico per interpretare il trionfo della luce. Come ho sottolineato in un mio precedente articolo sul Makhzan al-Asrar di Neẓāmī, ogni simbolo è una chiave: il melograno, in questa Notte di Yalda, è diventato il prisma attraverso cui guardare il cosmo.
Il rosso vibrante dei chicchi non è solo una scelta estetica, ma una promessa cosmologica. Esso rappresenta il colore dell’aurora (Sepideh). Spiegare questo significato durante il solstizio serve a ricordare che, nel momento di massima oscurità, il "sangue della luce" sta già ribollendo all'interno del frutto. Mangiarlo è un atto teurgico, una forma di "magia sacra" il cui scopo è l'unione con il Divino o l'armonizzazione dell'uomo con l'ordine dell'universo: si accoglie la luce dentro di sé prima ancora che sorga il sole, interiorizzando la vittoria contro le tenebre di Ahriman.
Uno dei concetti più cari alla mistica persiana, presente in Neẓāmī quanto in Ḥāfeẓ, è il rapporto tra l’Uno e i Molti. Ogni chicco è una vita, una benedizione individuale, eppure tutti sono strettamente serrati sotto un'unica buccia coracea. Questo simboleggia la coesione della comunità e della famiglia (Barakat): come i semi del melograno, i presenti si stringono insieme per non essere vulnerabili al buio, trasformando la pluralità in una forza unitaria e indistruttibile.
Il melograno è il simbolo della benedizione divina e della forza vitale. Nella tradizione zoroastriana era consacrato ad Anahita, divinità delle acque. In Neẓāmī, questo legame si fa poesia: la bellezza di Širīn è spesso paragonata al fiore di melograno (Gol-e Anār) per il suo rossore vitale. Il frutto aperto diventa l'immagine del cuore dell'amante (sia esso Khosrow o il devoto Farhād): una superficie dura che, una volta "spaccata" dal dolore o dal desiderio, rivela un'interiorità preziosa, sanguinante e dolcissima. Come lo scultore Farhād scava la montagna per amore di Širīn, il melograno rivela la sua bellezza e il suo nutrimento solo quando viene aperto, mostrando i suoi chicchi simili a gocce di sangue prezioso, simbolo del sacrificio che nobilita l’amante.
La spiegazione si è spinta oltre il simbolo, toccando la pragmatica di una cultura millenaria. Il melograno è l'anima della cucina persiana. Dalla melassa densa per il Fesenjān ai semi essiccati (Anardana) usati come spezia acidula, il frutto equilibra i sapori, incarnando il concetto di "giusta misura".
Citato come "Frutto del Paradiso" nel Corano e nei testi medici antichi, è da sempre usato per purificare il sangue e rinvigorire il cuore, agendo come un vero elisir di lunga vita.
Forse il dettaglio più tecnico e affascinante: la buccia del melograno, ricca di tannini, è il reagente fondamentale per fissare i colori e ottenere il celebre giallo dorato e il nero profondo delle tinture naturali dei tappeti persiani. Senza la buccia di questo frutto, l'arte visiva dell'Iran perderebbe la sua brillantezza eterna.
Mentre Giovanni Calcagno recitava i versi di Neẓāmī, il rosso dei melograni sulla tavola di Yalda non era più solo decorazione. Era una "scenografia parlante": ogni chicco spezzato era un verso di Neẓāmī che prendeva forma, un ponte tra la terra di Ganja e il cuore di Roma, ricordandoci che la conoscenza è l'unica luce capace di non spegnersi mai.
Una Sinfonia di Sensi e Culture
L'ensemble musicale guidato dal canto di Shahriar Mohammadi e dal Ney di Mehdi Moradi ha fornito la trama sonora su cui si è innestata la narrazione. Il suono del Ney, il flauto di canna, ha ricordato ai presenti il "lamento" dell'anima che desidera tornare alla sua origine, tema centrale sia in Neẓāmī che nella mistica persiana.
La serata si è conclusa con il gesto della condivisione: un "souvenir gustoso" che ha permesso a ogni partecipante di portare a casa un pezzo di quella luce celebrata.
La Notte di Yalda a Roma non è stata solo una ricorrenza per la comunità iraniana, ma un messaggio universale. Come ci insegna Neẓāmī nelle sue Sette Principesse o nel suo Romanzo di Alessandro, la ricerca della saggezza non ha confini. Il melograno, con la sua corona e il suo cuore pulsante di chicchi rossi, rimane lì a ricordarci che anche la notte più lunga è destinata a soccombere al primo raggio di sole, purché si abbia la forza di restare svegli, insieme, a leggere poesie.













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