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Somalia - Zamzam e il Serpente d’Oro nella foresta

  • 19 ott
  • Tempo di lettura: 7 min

Patrizia Boi (Assadakah News) -  Rubrica Culturale "Le Mille e Una Fiaba" - I Favolosi Paesi della Lega Araba


Capitolo 15 SOMALIA - Zamzam e il Serpente d'Oro nella Foresta

Zamzam e il Serpente d'Oro
Zamzam e il Serpente d'Oro

Nella terra rossa dove cresce la mirra e i baobab si curvano per ascoltare i canti del vento, viveva una giovane fanciulla chiamata Zamzam. La sua voce era come l’acqua che non si trova mai due volte nello stesso luogo. E quando danzava, persino le ombre si fermavano per guardarla. Si diceva che avesse il cuore di cristallo, la pelle color cioccolato caldo, e i capelli d’argento intrecciati al sole, perché non aveva mai detto una menzogna, nemmeno per errore.


Il suo villaggio si affacciava su una foresta di mirra, che nessuno osava più attraversare. Lì, nascosto tra i rami intrecciati e i sussurri delle antiche radici, dormiva da cento anni il Serpente d’Oro. Solo chi fosse puro come acqua non toccata dalla menzogna, avrebbe potuto risvegliarlo. Ma perché farlo?


Una leggenda dimenticata raccontava che, in una cassa di vetro, sepolta in una grotta oltre la Foresta dei Jinn, giaceva un giovane prigioniero, figlio del capo tribù. Aveva occhi azzurri come il cielo prima della pioggia, boccoli neri come la notte dopo la luna, e la pelle ambrata come il miele scuro. Un tempo aveva sfidato i Jinn per proteggere il suo popolo, ma era stato tradito, e ora dormiva da un secolo in una prigione di sogno e silenzio.


E la leggenda sussurrava:


«Solo un cuore trasparente potrà parlare al Serpente di Waaq. Solo chi danza con la verità potrà ottenere il fiore che cura ogni male. E solo quel fiore spezzerà la prigione di vetro».


Così Zamzam partì, senza dire addio, portando con sé solo una ciotola d’acqua e un piccolo tamburo di pelle.


Prima Prova – L’Albero del Tamarindo dei Ricordi


Prima Prova – Zamzam e L’Albero del Tamarindo dei Ricordi
Prima Prova – Zamzam e L’Albero del Tamarindo dei Ricordi

Il sole tramontava in mille riflessi d’oro tra le dune danzanti, che parevano onde di sabbia pronte a raccontare storie dimenticate. Nel mezzo di quel mare immobile, apparve un albero di tamarindo così immenso da toccare il cielo. I suoi rami, carichi di frutti color ambra, si curvavano come braccia protese, e le radici — nodose, lucenti, profondissime — affondavano nel tempo stesso, tra i sogni dei bambini e i sospiri degli antenati.


Dalla corteccia stillava una linfa argentea, che brillava come la luna versata in una coppa. Una voce sussurrò, lieve come sabbia sfiorata dal vento:


«Chi beve la mia linfa dimenticherà chi è. Ma chi conosce il proprio nome segreto, quello che nessuno ha mai pronunciato, potrà attraversarmi senza svanire».


Zamzam si avvicinò, scalza, il cuore che batteva come un tamburo sacro. Il vento le sollevò i capelli d’argento, e le stelle iniziarono a pulsare nei suoi occhi. Appoggiò la mano sul tronco caldo, vivo, palpitante. E allora non parlò, cantò. Cantò il suo vero nome, quello nascosto sotto tutti gli altri, quello inciso nella conchiglia del tempo, quello che solo il suo cuore ricordava, fatto di silenzi, memorie e luce.


L’albero fremette. I suoi frutti si aprirono come bocche felici, le foglie si misero a danzare. Poi, tra mille bagliori dorati, il tronco si spaccò al centro come un sipario di luce, e una scalinata di radici incantate si dispiegò davanti a lei, invitandola a passare. Zamzam entrò. E alle sue spalle, l’albero si richiuse in silenzio, custodendo, come un segreto prezioso, il nome della fanciulla che aveva saputo ricordare chi era.


Seconda Prova – L’Uccello Shimbir e la Danza del Silenzio

 Zamzam e l'uccello Shimbir
 Zamzam e l'uccello Shimbir

L’aria si fece rarefatta, sospesa come in un respiro trattenuto. Il cielo si tinse di un azzurro profondo, come se l’orizzonte avesse bevuto l’inchiostro della notte. E poi, senza suono, apparve lo Shimbir. Le sue ali disegnavano geometrie sacre tra le nuvole, le piume screziate di turchese e rame riflettevano i colori del mondo nascosto. Volava con grazia antica, come se ogni battito fosse un verso non ancora detto. Quando atterrò, il vento si inchinò.


Lo Shimbir era grande, regale, eppure leggero come un pensiero. Scese in volo lento, e con un fremito d’ali si posò sulla spalla di Zamzam. Le sue zampe non pesavano nulla, ma il suo sguardo…quello pesava come la verità.


Due occhi dorati si fissarono nei suoi, e in quel silenzio immenso, la voce si fece sguardo, domanda:


«Perché vuoi risvegliare ciò che è stato dimenticato?».


Zamzam non rispose con le parole. Perché sapeva che lo Shimbir, il messaggero degli Dei, ascoltava solo ciò che non si poteva dire. Così chiuse gli occhi. E danzò.


Sulla sabbia antica, danzò la nostalgia di un popolo che ogni sera guardava il cielo cercando un ritorno. Danzò la voce spezzata delle madri, il vuoto che il tempo non riesce a colmare. Danzò la speranza che si ostina anche quando tutto tace. Danzò l’amore che non pretende, non chiede, ma dona. Ogni passo era un battito. Ogni gesto un ricordo che si faceva luce.


Lo Shimbir rimase immobile. Poi, lentamente, come se il tempo avesse smesso di correre, spalancò le ali. Una piuma, lunga, iridescente, lucente come l’alba sul mare, cadde danzando nell’aria.

Zamzam la raccolse. Era leggera come una promessa. Eppure portava in sé il peso di ciò che è stato custodito per secoli. Lo Shimbir volò via, ma non svanì: si dissolse nel vento, come un canto che vive solo nei cuori pronti ad ascoltarlo.


Terza Prova – La Custode del Velo del Vento


La Custode del Velo del Vento camminava senza lasciare impronte
La Custode del Velo del Vento camminava senza lasciare impronte

Zamzam attraversò una valle silenziosa, dove il vento sembrava avere memoria. Tra le rocce levigate dal tempo, fluttuavano veli trasparenti, sospesi nel nulla, come se l’aria stessa li accarezzasse per non farli cadere. Erano leggeri come respiro… ma taglienti come ricordi. La terza prova non aveva forma, non aveva voce. Solo il vento parlava, con fruscii sottili e sussurri d’antiche verità.


All’improvviso, comparve una figura. Alta, avvolta da un manto fatto di nebbia e stelle, la Custode del Velo del Vento camminava senza lasciare impronte. Il suo volto era coperto da un velo color del crepuscolo, e dove avrebbe dovuto esserci la bocca, brillava una linea d’argento, come se le sue parole fossero state cucite con la luna.


Non parlò. Sollevò solo una mano, e i veli cominciarono a volteggiare. C’erano veli del passato, veli di ciò che sarebbe potuto essere, e veli che mostravano ciò che il cuore di Zamzam aveva nascosto perfino a sé stessa. Uno di quei veli la sfiorò. In un lampo, vide la sua infanzia, la voce di sua madre che le insegnava i canti del mattino, vide i giorni in cui aveva temuto di non essere abbastanza, le notti in cui aveva desiderato di essere invisibile.


Poi un altro velo le passò sul volto come un bacio. E vide il ragazzo nella cassa di vetro. I suoi occhi azzurri chiusi, il respiro sospeso come un verso mai cantato. Sentì il legame tra loro, antico e silenzioso, come un filo di seta teso tra due anime. Un ultimo velo si alzò, danzando con furia. Era il velo della paura. Mostrava un futuro vuoto, un fallimento, un mondo in cui nulla sarebbe cambiato. Zamzam si fermò. E poi cantò.


Non un canto di parole. Ma il suono del suo coraggio, della sua compassione, della sua verità. Il vento si placò. I veli si adagiarono al suolo, come petali di luce esausti. La Custode si avvicinò. E con un gesto solenne, le donò un piccolo amuleto: un frammento di vetro azzurro, che conteneva una goccia di vento imprigionato.


«Solo chi ha attraversato sé stesso può liberare gli altri», sussurrò.


E poi svanì. Zamzam strinse l’amuleto al petto. Le prove erano compiute. Ora il serpente d’oro l’attendeva.


Epilogo – Il Risveglio del Serpente d’Oro


Il Serpente si mosse. Si alzò, e la guardò.
Il Serpente si mosse. Si alzò, e la guardò.

Nel cuore della foresta di mirra, dove l’aria profuma di segreti e le foglie cantano preghiere dimenticate, Zamzam arrivò al luogo sacro. Il suolo era morbido e caldo, come pelle che respira. Davanti a lei, arrotolato come un antico disegno tracciato dalle stelle, dormiva il Serpente d’Oro. La sua pelle scintillava di rame e sole, le squame erano specchi di luce, e il suo respiro, impercettibile, faceva tremare i petali delle orchidee selvatiche.


Nessuno, diceva la leggenda, avrebbe potuto svegliarlo, se non colei che non ha mai detto una menzogna. Ma Zamzam sapeva che il vero silenzio non è assenza di parola. È verità che vibra nel sangue. Si inginocchiò. Tolse le scarpe, come davanti a un tempio. Poi, da sotto il mantello, estrasse la piuma dello Shimbir, l’amuleto del vento, e il suo cuore nudo dove era custodito il suo nome segreto.


Iniziò a cantare. Non parole. Ma suoni ancestrali, che solo le radici conoscono, suoni che parlavano di un ragazzo addormentato, del dolore di chi attende, e della bellezza che nasce quando l’anima si offre senza maschera. Il Serpente si mosse. Prima la coda, poi le spire, e infine la testa maestosa, con occhi color ambra liquida che brillavano come se ricordassero ogni tramonto mai visto. Si alzò, e la guardò.


E vide in lei la limpidezza. Vide il coraggio di chi non finge, la forza di chi ama senza catene. Senza parlare, le donò un fiore. Non era un fiore comune. Era una rosa di luce, fatta di respiro e rugiada, che curava ogni male, persino quelli che non si vedono. Zamzam la prese. E senza esitare, tornò là dove il figlio del capo tribù giaceva. Nel cuore della terra, in una cassa di vetro che il tempo aveva dimenticato, il ragazzo dagli occhi azzurri e i ricci neri dormiva da cent’anni.


Zamzam si chinò. E appoggiò la rosa sul suo petto. Una luce tenue si sparse nella stanza. Il vetro si incrinò…una… due… mille crepe…e poi, silenziosamente, si dissolse come nebbia all’alba. Gli occhi del ragazzo si aprirono. Blu come il cielo dopo una tempesta. E in essi, il riflesso del volto di Zamzam, come se l’avesse sempre sognata.


Non parlarono. Non serviva. Perché il cuore riconosce ciò che l’anima non ha mai dimenticato.

Tornarono al villaggio. Non da eroi. Ma da poeti. Tutti seppero della Rosa di luce e del suo profumo. Ogni sera, il vento portava nuove storie: di serpenti che dormono tra i sogni, di piume che parlano con lo sguardo, di veli che insegnano a vedere con il cuore.


E ancora oggi, se ascolti…se taci…se apri il cuore come si apre un fiore alla luce… puoi sentire il battito di un tamburo lontano e una voce che sussurra, dolce come il mirto e forte come la verità:


«Solo chi ama può attraversare il deserto senza perdersi».


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SPECIALE LEGA ARABA

A cura di Roberto Roggero, Patrizia Boi, Maddalena Celano

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